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Roma: La vendetta degli armeni

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  • Roma: La vendetta degli armeni

    Avvenire, Italia
    Giovedi 24 febbraio 2005

    IL CASO
    Dopo il genocidio voluto dai Turchi,i sopravvissuti iniziarono una
    caccia sistematica ai colpevoli

    La vendetta degli armeni

    Nacque l'«Operazione Nemesis» che portò anche ad alcuni omicidi: un
    libro ripercorre la vicenda

    Di Edoardo Castagna

    Nessun processo di Norimberga, nessun Simon Wiesenthal hanno reso
    giustizia agli armeni. Per lungo tempo lo sterminio di più di un
    milione di persone è stato cancellato dalla storia, affidato solo
    alla memoria dei superstiti e dei loro discendenti. Oggi i fatti sono
    noti e nella strage compiuta nelle pietraie anatoliche si vede il
    primo dei genocidi del Novecento. Ma allora, durante la guerra e
    immediatamente dopo, pochi si curarono degli armeni.
    Lo sterminio era stato deciso dai Giovani Turchi al potere dal 1908,
    che portarono la Turchia nella Grande Guerra e diedero il via alla
    pulizia etnica. Nel 1919 il rinato governo ottomano condannò a morte
    in contumacia i principali responsabili, ma i Giovani Turchi di Kemal
    Atatürk finirono per imporsi e le sentenze furono dimenticate. Gli
    occidentali, ansiosi di stabilire una collaborazione con Kemal,
    tacquero; gli organizzatori del genocidio, internati a Malta,
    tornarono in libertà. E gli armeni decisero di fare da sé.
    Il Dashnak, la Federazione rivoluzionaria armena, ideò l'Operazione
    Nemesis per uccidere i responsabili dei massacri sia tra i governanti
    turchi, sia tra le spie armene al loro servizio. I politici furono
    colpiti in Europa, dove si erano rifugiati in attesa di tornare al
    potere; tre furono vittime di Arshavir Shiragian, giovane attivista
    che ha raccontato la sua vicenda nel libro Condannato a uccidere.
    Memorie di un patriota armeno, ora tradotto in italiano (Guerini,
    pagine 252, euro 18,50).
    Nato con il secolo, Shiragian aveva 15 anni quando i turchi diedero
    il via al massacro. Scampò alla morte perché apparteneva alla
    comunità armena di Istanbul, parzialmente difesa dalla presenza di
    diplomatici e militari stranieri. I cristiani - armeni, ma anche
    greci - erano comunque sempre a rischio; gli uomini venivano fatti
    sparire di notte e inviati in Anatolia, il teatro della strage. Fu
    deportato il patriarca, Zaven; la comunità armena si organizzò per
    nascondere i ricercati e per ammassare armi, pronta a ogni evenienza.
    Il giovane Arshavir raccoglieva vettovaglie e informazioni,
    trasportava fucili e occultava, nei doppi muri della sua casa, decine
    di compatrioti. Al termine della guerra ebbe il suo "battesimo di
    fuoco" uccidendo una spia e poi partì per l'Armenia, che allora stava
    vivendo una prima, effimera indipendenza. Stretto tra la morsa dei
    sovietici a nord e dei turchi a sud, il neonato Stato armeno non
    sopravvisse che fino al 1921; Shiragian, imprigionato e torturato dai
    georgiani a Tiblisi, lo raggiunse quando ormai le speranze
    d'indipendenza erano cadute. Nel 1923 il trattato di Losanna rinnegò
    definitivamente quello firmato a Sèvres tre anni prima, che aveva
    affermato la necessità di un tribunale internazionale per giudicare i
    responsabili dei massacri.
    Shiragian venne inviato a Roma per eliminare l'ex primo ministro Said
    Halim. In quel momento il suo compagno Soghomon Tehlirian uccideva a
    Berlino Talaat Pascià, già ministro degli Interni: l'Operazione
    Nemesis era al via, e nel dicembre di quello stesso 1921 Shiragian
    compì la sua missione assassinando Said Halim. Shiragian ricostruisce
    pedinamenti, appostamenti ed esecuzioni senza enfasi ma anche senza
    tentennamenti. Dalle sue memorie non emerge rimorso, né il sospetto
    di essersi arrogato un ruolo al di sopra della legge e della morale.
    Si avverte invece l'incombenza necessaria della giustizia, di quella
    riparazione umana dei torti che la comunità internazionale aveva
    negato.
    Shiragian non cerca vendette personali ma esegue scrupolosamente gli
    ordini del Dashnak; l'odio che cova è il movente individuale dei suoi
    omicidi, ma lo disciplina entro l'Operazione Nemesis. Non si
    considera un assassino: «Il pensiero di servirmi della mia arma
    contro innocenti non mi aveva mai sfiorato. La nostra organizzazione
    non aveva un progetto di sterminio. Puniva quegli individui che erano
    stati giudicati in contumacia e riconosciuti colpevoli di assassini
    di massa».
    Lasciata Roma, Shiragian uccise a Be rlino Behaeddine Shakir,
    pianificatore dello sterminio, e Djemal Azmi, il «mostro di
    Trebisonda» responsabile della morte dei bambini armeni che, legati,
    venivano gettati in mare. Insieme a un altro sicario colpì i due
    turchi senza sfiorare mogli e figli che al momento dell'attentato si
    trovavano con loro; sfuggito alla polizia riparò negli Stati Uniti,
    dove si stabilì definitivamente.
    Shiragian non fu mai processato, ma anche per lui si pone il problema
    dibattuto a Berlino nel corso delle udienze contro il suo compagno
    Tehlirian. L'assassino di Talaat Pascià era stato individuato come
    l'autore dell'omicidio, eppure la giuria lo prosciolse. Negli anni
    Venti la violenza era considerata un'arma abituale della politica, e
    al processo si stabilì che Tehlirian aveva sì ucciso Talaat, ma non
    ne era "colpevole", non più di quanto il boia lo sia dell'esecuzione
    di un condannato a morte. I sogni di Shiragian non erano di vendetta
    e di odio, ma semplicemente di normalità.
    Una normalità che gli appariva impossibile finché i responsabili del
    genocidio sopravvivevano impuniti, ma che i militanti dell'Operazione
    Nemesis credevano di poter restaurare attraverso la violenza:
    «Compiuta la missione, sarei tornato a Costantinopoli per fidanzarmi
    ufficialmente con Gaiané. Poi saremmo andati in America e ci saremmo
    sposati. Mi sarei lanciato negli affari e avremmo vissuto una vita
    tranquilla senza angosce quotidiane».

    http://www.db.avvenire.it/avvenire/edizione_2005_02_24/articolo_518805.html
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