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Credere l'incredibile

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    La Stampa, Italia
    01/20/2005

    CREDERE L'INCREDIBILE

    Spinelli Barbara


    Barbara Spinelli NOI non sappiamo che cosa sia realistico o non
    realistico: noi qui stiamo morendo tutti! Vai a dire questo!"". Con
    queste parole Leon Feiner, attivista dell'organizzazione Jewish
    Socialist Bund, si accomiato' da Jan Karski nel '42, dopo l'invasione
    nazista della Polonia. Era ormai chiuso nella trappola che Varsavia
    era divenuta per gli ebrei, e Karski era la sua unica speranza.

    Karski era un diplomatico polacco, cattolico, che nel '41 era entrato
    clandestinamente nel Paese occupato e aveva visto l'essenziale: il
    ghetto di Varsavia, il campo di sterminio di Belzec alla frontiera
    con l'Ucraina, le stelle gialle, l'uccisione per le strade di donne,
    bambini. Era un testimone prezioso e fu incaricato di raccontare gli
    eventi a Londra e in America, mostrando i filmati presi nella
    spedizione. Non fu ascoltato, se non da pochi.

    Non gli credette nessuno, tranne qualche spirito profetico. Fu cosi'
    sempre, nei genocidi del XX secolo.

    Dopo aver letto il rapporto di Karski e visto i suoi film, Ignacy
    Schwarzbart in nome del Consiglio nazionale polacco di Londra invio'
    un telegramma al Congresso Ebraico Mondiale, alla fine del '42:
    ""Ebrei in Polonia quasi completamente annientati - STOP - A Belzec
    costretti scavare loro tomba suicidio di massa centinaia di bambini
    gettati vivi in canali di scolo - STOP - Ebrei nudi trascinati camere
    della morte - STOP - Migliaia di vittime quotidiane intera Polonia -
    STOP - Credere l'incredibile - STOP"". Credere l'incredibile: ecco la
    frase che spiega tanti misteri, nelle reazioni del mondo a Auschwitz.
    Che spiega il silenzio, l'indifferenza delle democrazie, dei maestri
    di pensiero e di religione. Furono numerosi perfino gli ebrei, a non
    credere: negli Stati Uniti, Karski non riusci' a smuovere Felix
    Frankfurter, giudice della Corte Suprema, e Isaiah Berlin - nel '42
    lavorava all'ambasciata britannica di Washington - non vedeva piu' di
    un pogrom, una persecuzione abituale. Stessa reazione l'ebbero
    dirigenti sionisti come Nahum Goldman, Chaim Weizmann, David
    Ben-Gurion.

    Scrive la studiosa Samantha Power, in un libro esemplare, che i
    rappresentanti della civilta' vivevano in ""un crepuscolo tra il
    sapere e il non sapere"" (Voci dall'Inferno, Baldini Castoldi Dalai
    2004). Questo era dunque il contesto, in cui i contemporanei di
    Auschwitz pensavano, operavano, prima della liberazione dei campi
    sessant'anni fa.

    Questa la sensibilita' ottenebrata, la mancata percezione del
    carattere inedito dell'orrore: il contesto e' qualcosa che gli
    storici non possono ignorare, e che secondo molti giustifica silenzi
    e omissioni non solo durante, ma dopo lo sterminio. Lo si e' potuto
    constatare nell'avvincente dibattito aperto dal Corriere della Sera
    su Pio XII e l'ordine, nel '46, di non restituire alle famiglie i
    bambini ebrei salvati e battezzati durante il genocidio. La storia
    non si giudica con il metro del presente, e' stato detto. E
    certamente non possiamo ignorare tutti quegli ingredienti (il
    contesto appunto, o come si dice oggi il comune sentire,
    l'orientamento largamente diffuso all'epoca dei fatti) che sono la
    stoffa di cui da sempre e' fatto il Zeitgeist, e cioe' quello spirito
    dei tempi teorizzato da Hegel e descritto da Goethe come
    ""predominio"" di un pensiero che ""s'impossessa delle masse"" e non
    tollera pareri contrari. Karski e altri non furono ascoltati, e tale
    era il Zeitgeist degli Anni 30 e 40. Lo era per vari motivi. Perche'
    le sovranita' degli Stati erano intangibili, e la lotta a Hitler era
    contro la sua espansione militare. Il crimine era talmente
    inconcepibile da sembrare non possibile.

    Gli ebrei erano stati perseguitati tante volte, e non si vide lo
    strappo. Ma soprattutto non c'era un nome, per dirlo. Il crimine era
    non solo inconcepibile ma ineffabile, dunque condannato a restare nel
    crepuscolo tra dire e non dire, agire e non agire. Il richiamo allo
    Spirito dei Tempi si comprende, ma non e' in realta' di enorme aiuto.
    Quel che avvenne durante il genocidio e dopo chiarisce il perche' di
    tante rimozioni (compresa la rimozione in Israele; compresa la
    rimozione favorita dai comunisti in Est Europa: nei Lager le lapidi
    tacitavano il martirio degli ebrei, giudicato secondario rispetto a
    quello dei comunisti), ma e' utile piu' per una cura di guarigione
    dopo il delitto, che per una cura che lo scongiuri.

    La questione davvero cruciale e' un'altra, e la lezione di Auschwitz
    non concerne tanto l'espiazione-riparazione quanto la prevenzione.
    Come dice Freud criticando Dostoevskij: quel che conta nell'etica e'
    evitare di fare il male, non anelare a lacerate espiazioni. E la
    memoria giova se salvaguarda i due ricordi: come si pati' l'orrore e
    lo si penso' dopo, ma anche come fu intuito e ritenuto scongiurabile
    prima, se testimoni e moniti fossero stati ascoltati. Di questo gli
    storici non si occupano molto, anche perche' la figura del testimone
    non ha sempre diritto di cittadinanza nei loro archivi. Eppure e'
    questo che puo' aiutare a capire, ad agire: la rievocazione degli
    allarmi che furono lanciati da un certo numero di illuminati.

    Lo studio del loro carattere, del loro metodo. Esaminando le opere di
    chi seppe dire l'orrore, si apprende una grande lezione: non e'
    necessaria una vista specialmente acuta, ne' occorre attendere di
    avere un'idea sulle idee del genocidio (questo il significato di
    vocaboli improbi come concettualizzazione, contestualizzazione della
    Shoah). E' sufficiente avere una quantita' modica di decenza, non
    influenzabile dalle circostanze.

    E per istituzioni come il Papa di Roma, e' sufficiente - lo ricorda
    Claudio Magris - rammentare che la Chiesa non e' figlia del Zeitgeist
    ma difende ""verita' ritenute immutabili"". L'antigiudaismo
    tradizionale che allignava nel cristianesimo aveva creato un clima
    favorevole all'antisemitismo hitleriano ma non aveva a che fare con
    Auschwitz. Qualcosa di nuovo era apparso in Europa, un antisemitismo
    che non spingeva gli ebrei ne' a convertirsi ne' a fuggire ma che li
    chiudeva in spazi chiusi e li annientava. E il nuovo che irrompe nel
    presente, solo uno sguardo profetico puo' intuirlo: non perche' il
    profeta anticipi l'avvenire, ma perche' sa descrivere il presente.
    Solo i profeti e i vigili hanno quel che serve: non una visione
    storicizzata dell'etica ma un'immaginazione morale, e la capacita' di
    dare un nome all'Inferno. Non mancarono uomini simili, dotati di
    fantasia etica.

    Basta ricordare due nomi, a parte Karski. Il primo e' Arnold
    Schonberg: nel libro Un Programma in Quattro Punti per l'Ebraismo,
    scritto fra il '33 e il '38, il musicista fa la lista meticolosa
    degli ebrei minacciati da Hitler che vivono in Germania, Austria,
    Europa centro-orientale: ""C'e' posto nel mondo per circa 7 milioni
    di persone? O questi milioni sono condannati alla finale rovina? A
    divenire un popolo estinto, affamato, macellato?"". Schonberg fa
    capire che non l'eroismo s'impone. Basta un po' d'anticonformismo, ed
    essere ""osservatori svegli, realistici"". Cosi' l'immaginazione
    morale si mette a servizio del realismo, solitamente evocato per
    giustificare omissioni. Schonberg aveva visto montare l'antisemitismo
    nuovo fin dai primi Anni 20, in Austria. Il secondo e' Raphael
    Lemkin, un giurista polacco che dopo il genocidio degli armeni nel
    '15 aveva capito quale disastro puo' nascere da crimini prima non
    visti, poi impuniti.

    Poco prima di invadere la Polonia, Hitler aveva rassicurato cosi' i
    comandanti del proprio esercito: ""Chi ricorda ancora, oggi, il
    genocidio degli armeni?"". Nessuno lo ricordava perche' non esisteva
    ancora un nome per simile crimine, e solo il nome poteva fondare
    secondo Lemkin una giurisprudenza internazionale. Il 24 agosto '41,
    mentre i nazisti avanzavano in Russia, Churchill aveva detto alla
    Bbc: ""Interi distretti vengono sterminati, migliaia sono le
    esecuzioni a sangue freddo.

    Dall'invasione dei Mongoli non s'e' visto un mattatoio simile. Siamo
    in presenza d'un crimine senza nome"". Grazie a Lemkin, il crimine
    senza nome ricevera' invece un nome, gia' nel '43: genocidio. E una
    volta trovato il nome si potra' poi legiferare. Nel '48, l'Onu
    approva una Convenzione sul genocidio, e a Norimberga il reato di cui
    saranno accusati i nazisti sara' genocidio. Negli Anni Cinquanta si
    trovera' il nome di Olocausto (lo storico ebreo Poliakov nel '51, lo
    scrittore cattolico Mauriac nel '58).

    Poi, sulla scia del film di Claude Lanzmann, si parlera' di Shoah.
    Dare un nome e' cruciale, se si vuol far fronte agli stermini prima
    che succedano. Per Ruanda e Bosnia non si volle usare la parola
    genocidio, perche' la convenzione Onu comporta il dovere
    d'intervento. Anche l'annientamento con armi chimiche di circa
    100.000 curdi iracheni nell'87 non fu chiamato genocidio. Furono le
    amministrazioni Reagan e Bush senior a opporsi, perche' Saddam era
    allora un prezioso alleato. Divenne nemico da abbattere quando stava
    diventando, grazie a ispezioni e sanzioni, nella sostanza innocuo.

    Il motivo per cui contano piu' i prodromi che la successiva
    elaborazione della colpa e' che nel futuro varra' la pena prevenire
    ecatombi simili, piuttosto che trovare il modo piu' eccelso di
    piangere i morti. Per far questo, bisogna non solo dare il nome al
    delitto, come ha fatto Lemkin, ma riscrivere un intero vocabolario, a
    partire dall'esperienza di Auschwitz.

    Bisogna ridefinire la classica politica di potenza e dunque la
    sovranita' assoluta degli Stati, stabilendo che essi non possono fare
    qualsiasi cosa sul proprio territorio. Bisogna avere l'immaginazione
    morale atta a dire l'indicibile, l'incredibile. Non bisogna dare
    colori metafisici agli eventi: Auschwitz e' uno sterminio di popoli
    (ebrei, polacchi, zingari); non e' ne' un misterico sacrificio (un
    Olocausto) ne' un'esperienza che riguarda solo gli ebrei. E non sono
    coinvolti solo etnie ma modi di essere, di vivere (malati mentali,
    omosessuali). Bisogna rivedere il concetto di comune civilta' umana,
    liberandola dagli unanimismi: la civilta' umana, dice Ignatieff, e'
    unita nella coscienza della propria diversita'. Nessun essere sulla
    terra si differenzia come gli uomini (per colore di pelle, religione,
    stili di vita), ed e' questo il tesoro da salvare.

    E' perche' non c'e' ancora questo vocabolario che tanti tabu', legati
    a Auschwitz, rischiano oggi di cadere. Tra questi: l'eugenetica; o la
    tortura dei prigionieri di guerra, costretti a denudarsi e a vedersi
    umiliati nella propria religione (Abu Ghraib). Torna infine il
    bisogno di capro espiatorio: il bisogno di individuare categorie
    nemiche, per appartenenza religiosa o modi di vita.

    Come dice Ignatieff, il genocidio comincia con la promessa di creare
    un mondo senza diversi, senza nemici, fatto di gente tutta eguale.

    Comincia con un'utopia, e quest'utopia mortifera e' dentro ciascuno
    di noi. E siccome l'utopia e' dentro di noi, e l'orientamento diffuso
    tra la gente e i politici tende negli ultimi tempi a assecondarla,
    Auschwitz e' sempre di nuovo possibile.
Working...
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