Il Manifesto, Italia
4 maggio 2008
Occhio alla tv
«Ghiro ghiro tondo», filastrocca di giocattoli da guerra
La lunga notte della trasmissione di Enrico Ghezzi - per l'occasione
catalogata sotto il tema - «sopraluoghi tra Armenie per guerre non
finite» si apre con Ghiro Ghiro tondo, capolavoro di Yervant Gianikian
e Angela Ricci Lucchi che hanno filmato catalogando con benjaminiana
passione, compassione e ferocia, la propria collezione di giocattoli
da nulla, per bimbi qualunque, fabbricati, tra i due conflitti
mondiali, nei paesi dell'asse, definiti «Roberto» da Gianikian: cioè
Roma, Berlino, Tokyo. Tutte in primo piano, tenute in mano, spesso
scartate, bambole e bamboline già numerate e sinistramente tatuate,
aeroplanini, soldatini coloniali vanto della disciplina occidentale,
battaglie navali, costruzioni a incastro, due Mickey Mouse, formine,
dolcetti ormai cromaticamente putrescenti, sceicchi di Damasco,
fabbricati più con legno che con plastica, con la Berberian a
gorgheggiare, lugubre, nel più buio e inudibile degli sfondi. È la
putrida palude del balocco ludico, per formare e deformare bambini da
macellare al fronte e bambine come «genere di conforto».
Ma l'orrore arriva a poco a poco, come nel racconto di Hoffman, cui
Offenbach dette gli ornamenti funebri più terrorizzanti. E Angela
Ricci Lucchi ricorda infatti, quella strana bambina a altezza
naturale, con le sembianze esatte di Alma Mahler, che l'innamorato
respinto, mutilato di guerra, anche ai genitali, Oskar Kokoschka, il
suo professore alla scuola d'arte, si portava in giro, per non
suicidarsi, anche in crociera, e perfino nella giungla d'Africa.
I giocattoli sono parte di una collezione che va dalla fine della
prima guerra mondiale agli anni Cinquanta, giocattoli che esprimono
dunque segni di colonialismi e di stermini. «Sono sopravvissuti alle
infanzie sconvolte dalle guerre - sottolineano Gianikian e Ricci
Lucchi, ombre minaccianti di un fascismo e di un nazismo». L'Armenia
da dove Giankian arriva, il padre vittima del genocidio compiuto dai
turchi e mai riconosciuto dall'Europa - solo la Francia lo ha fatto e
prima di Sarkozy - torna spesso nei film dei due cineasti. Anche se in
modo diretto, quando si parla di colonialismo o di guerra o di
fascismo nel loro cinma che usa gli archivi da sempre, assai prima
della ormai fastidiosa moda dell'home movie. Loro non si compiacciono,
in questi film «familiari» di familiarissima propaganda cercano
infatti il rovescio del senso, quanto è nella grana delle immagini
nonostante le intenzioni primarie di chi le ha fabbricate. Evidenza
che stordisce per la sua sempre bruciante attualità.
«Fuori orario» prosegue con un'altra prima visione, produzione
sovietica del '74 diretta da Bagrat Oganesyan dal titolo
Torchio. Ancora guerra, quella subita in prima persona dal giovane
Vahe che riceve la notizia della morte del padre sul fronte.
Per chiudere, Ararat di Atom Egoyan, titolo dal nome della montagna
-simbolo della lotta armena contro l'occupazione turca. La trama si
concentra sui rapporti difficili tra Raffi e David, figli di due
«famiglie difficili», e su una memoria dolorosa
comune. RAITRE/STANOTTE 1.40-7.00
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-ar chivio/03-Maggio-2008/art70.html
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress
4 maggio 2008
Occhio alla tv
«Ghiro ghiro tondo», filastrocca di giocattoli da guerra
La lunga notte della trasmissione di Enrico Ghezzi - per l'occasione
catalogata sotto il tema - «sopraluoghi tra Armenie per guerre non
finite» si apre con Ghiro Ghiro tondo, capolavoro di Yervant Gianikian
e Angela Ricci Lucchi che hanno filmato catalogando con benjaminiana
passione, compassione e ferocia, la propria collezione di giocattoli
da nulla, per bimbi qualunque, fabbricati, tra i due conflitti
mondiali, nei paesi dell'asse, definiti «Roberto» da Gianikian: cioè
Roma, Berlino, Tokyo. Tutte in primo piano, tenute in mano, spesso
scartate, bambole e bamboline già numerate e sinistramente tatuate,
aeroplanini, soldatini coloniali vanto della disciplina occidentale,
battaglie navali, costruzioni a incastro, due Mickey Mouse, formine,
dolcetti ormai cromaticamente putrescenti, sceicchi di Damasco,
fabbricati più con legno che con plastica, con la Berberian a
gorgheggiare, lugubre, nel più buio e inudibile degli sfondi. È la
putrida palude del balocco ludico, per formare e deformare bambini da
macellare al fronte e bambine come «genere di conforto».
Ma l'orrore arriva a poco a poco, come nel racconto di Hoffman, cui
Offenbach dette gli ornamenti funebri più terrorizzanti. E Angela
Ricci Lucchi ricorda infatti, quella strana bambina a altezza
naturale, con le sembianze esatte di Alma Mahler, che l'innamorato
respinto, mutilato di guerra, anche ai genitali, Oskar Kokoschka, il
suo professore alla scuola d'arte, si portava in giro, per non
suicidarsi, anche in crociera, e perfino nella giungla d'Africa.
I giocattoli sono parte di una collezione che va dalla fine della
prima guerra mondiale agli anni Cinquanta, giocattoli che esprimono
dunque segni di colonialismi e di stermini. «Sono sopravvissuti alle
infanzie sconvolte dalle guerre - sottolineano Gianikian e Ricci
Lucchi, ombre minaccianti di un fascismo e di un nazismo». L'Armenia
da dove Giankian arriva, il padre vittima del genocidio compiuto dai
turchi e mai riconosciuto dall'Europa - solo la Francia lo ha fatto e
prima di Sarkozy - torna spesso nei film dei due cineasti. Anche se in
modo diretto, quando si parla di colonialismo o di guerra o di
fascismo nel loro cinma che usa gli archivi da sempre, assai prima
della ormai fastidiosa moda dell'home movie. Loro non si compiacciono,
in questi film «familiari» di familiarissima propaganda cercano
infatti il rovescio del senso, quanto è nella grana delle immagini
nonostante le intenzioni primarie di chi le ha fabbricate. Evidenza
che stordisce per la sua sempre bruciante attualità.
«Fuori orario» prosegue con un'altra prima visione, produzione
sovietica del '74 diretta da Bagrat Oganesyan dal titolo
Torchio. Ancora guerra, quella subita in prima persona dal giovane
Vahe che riceve la notizia della morte del padre sul fronte.
Per chiudere, Ararat di Atom Egoyan, titolo dal nome della montagna
-simbolo della lotta armena contro l'occupazione turca. La trama si
concentra sui rapporti difficili tra Raffi e David, figli di due
«famiglie difficili», e su una memoria dolorosa
comune. RAITRE/STANOTTE 1.40-7.00
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-ar chivio/03-Maggio-2008/art70.html
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress