La Stampa, Italia
23 dic 2011
Il caso Armenia, una disputa che imbarazza anche Obama
MAURIZIO MOLINARI
La questione armena causa imbarazzi e grattacapi a Barack Obama da
quando ha messo piede alla Casa Bianca. Il motivo è che durante la
campagna elettorale del 2008 aveva adoperato l'espressione «genocidio»
per definire la strage di armeni in Turchia avvenuta durante la Prima
Guerra Mondiale, promettendo di commemorarlo come tale se fosse stato
eletto. Ma dopo l'insediamento ha preferito ricorrere ad altri termini
per scongiurare crisi con la Turchia, un partner Nato che Obama
considera un alleato cruciale per rilanciare il dialogo con l'Islam.
Così, nei tre anni da presidente, ha adoperato l'espressione armena
«Meds Yeghem» (Grande Calamità) per commemorare il milione e mezzo di
vittime cristiane, esprimendo rispetto per «la memoria di chi morì in
una delle peggiori atrocità del XX secolo», ma facendo attenzione a
non pronunciare la parola «genocidio».
Tale equilibrismo linguistico ha protetto l'intesa privilegiata con
Tayyip Recep Erdogan, divenuto dopo l'inizio delle rivolte arabe uno
dei principali interlocutori di Washington in Medio Oriente, ma ha
comunque esposto Obama a pressioni e proteste. Ankara infatti si
oppone con forza all'inserimento della strage di armeni fra le
atrocità del '900, ritenendola una «grave distorsione dei fatti» e
accusando la Casa Bianca di «commenti inaccettabili che pregiudicano
la normalizzazione dei rapporti fra Turchia e Armenia».
Sul fronte opposto la diaspora armena negli Stati Uniti sfrutta ogni
occasione per mettere in difficoltà l'Amministrazione Obama,
accusandola di aver mancato la promessa elettorale. Si tratta di un
fronte rovente. Basti pensare che nelle ultime due settimane le
associazioni di armeni-americani hanno ottenuto il passaggio alla
Camera dei Rappresentanti di una mozione che chiede ad Ankara di
«restituire i beni delle Chiese depredate durante il genocidio» perché
«sono testimonianze uniche della Cristianità». Poi sono riuscite a
bloccare al Senato la nomina di Matthew Bryza ad ambasciatore in
Azerbaigian perché in passato si era opposto al riconoscimento del
«genocidio armeno» da parte degli Stati Uniti, oltre al fatto di
«essere sposato con una turca» seppur naturalizzata americana. Come se
non bastasse, le associazioni armene, e i loro alleati di entrambi i
partiti a Capitol Hill, stanno tentando di condizionare la
suddivisioni degli aiuti economici ai Paesi del Caucaso per dare
maggiori soddisfazioni a Erevan come forma di risarcimento per il
mancato riconoscimento del «genocidio» del 1915. E si tratta di
pressioni che mettono in difficoltà la Casa Bianca perché gli armeni
sono un tassello della coalizione di minoranze che per tradizione vota
i candidati democratici. Se Erdogan serve alle strategie mediorientali
di Obama, rinunciare agli armeni può essere pericoloso per la corsa
alla rielezione.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2293&ID_sezion e=58
23 dic 2011
Il caso Armenia, una disputa che imbarazza anche Obama
MAURIZIO MOLINARI
La questione armena causa imbarazzi e grattacapi a Barack Obama da
quando ha messo piede alla Casa Bianca. Il motivo è che durante la
campagna elettorale del 2008 aveva adoperato l'espressione «genocidio»
per definire la strage di armeni in Turchia avvenuta durante la Prima
Guerra Mondiale, promettendo di commemorarlo come tale se fosse stato
eletto. Ma dopo l'insediamento ha preferito ricorrere ad altri termini
per scongiurare crisi con la Turchia, un partner Nato che Obama
considera un alleato cruciale per rilanciare il dialogo con l'Islam.
Così, nei tre anni da presidente, ha adoperato l'espressione armena
«Meds Yeghem» (Grande Calamità) per commemorare il milione e mezzo di
vittime cristiane, esprimendo rispetto per «la memoria di chi morì in
una delle peggiori atrocità del XX secolo», ma facendo attenzione a
non pronunciare la parola «genocidio».
Tale equilibrismo linguistico ha protetto l'intesa privilegiata con
Tayyip Recep Erdogan, divenuto dopo l'inizio delle rivolte arabe uno
dei principali interlocutori di Washington in Medio Oriente, ma ha
comunque esposto Obama a pressioni e proteste. Ankara infatti si
oppone con forza all'inserimento della strage di armeni fra le
atrocità del '900, ritenendola una «grave distorsione dei fatti» e
accusando la Casa Bianca di «commenti inaccettabili che pregiudicano
la normalizzazione dei rapporti fra Turchia e Armenia».
Sul fronte opposto la diaspora armena negli Stati Uniti sfrutta ogni
occasione per mettere in difficoltà l'Amministrazione Obama,
accusandola di aver mancato la promessa elettorale. Si tratta di un
fronte rovente. Basti pensare che nelle ultime due settimane le
associazioni di armeni-americani hanno ottenuto il passaggio alla
Camera dei Rappresentanti di una mozione che chiede ad Ankara di
«restituire i beni delle Chiese depredate durante il genocidio» perché
«sono testimonianze uniche della Cristianità». Poi sono riuscite a
bloccare al Senato la nomina di Matthew Bryza ad ambasciatore in
Azerbaigian perché in passato si era opposto al riconoscimento del
«genocidio armeno» da parte degli Stati Uniti, oltre al fatto di
«essere sposato con una turca» seppur naturalizzata americana. Come se
non bastasse, le associazioni armene, e i loro alleati di entrambi i
partiti a Capitol Hill, stanno tentando di condizionare la
suddivisioni degli aiuti economici ai Paesi del Caucaso per dare
maggiori soddisfazioni a Erevan come forma di risarcimento per il
mancato riconoscimento del «genocidio» del 1915. E si tratta di
pressioni che mettono in difficoltà la Casa Bianca perché gli armeni
sono un tassello della coalizione di minoranze che per tradizione vota
i candidati democratici. Se Erdogan serve alle strategie mediorientali
di Obama, rinunciare agli armeni può essere pericoloso per la corsa
alla rielezione.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2293&ID_sezion e=58