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Ca' Zenobio Degli Armeni

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    CA' ZENOBIO DEGLI ARMENI

    Citta Nuova
    http://www.cittanuova.it/contenuto.php?TipoContenuto=web&idContenuto=333612
    17 Febbraio 2012
    Italia

    Nello splendido palazzo veneziano, gia sede del Collegio Armeno,
    aleggia la memoria del poeta armeno Daniel Varujan, tra le prime
    vittime del genocidio del suo popolo. Un grande, tutto ancora da
    conoscere

    Uno dei più imponenti edifici di Venezia e tra i più significativi
    esempi del tardo Barocco veneziano è Ca' Zenobio, nel sestiere
    di Dorsoduro. Principale punto di attrazione di questo palazzo,
    gia sede, dal 1850 al 1997, del Collegio Armeno Moorat Raphael,
    ma tuttora appartenente ai padri armeni mechitaristi, è il sontuoso
    salone da ballo, i cui grandi specchi ampliano la magnificenza dello
    spazio. Ma l'emozione maggiore l'ho provata appena entrato, quando
    nella penombra dell'ingresso al pianterreno ho scorto una lapide con
    un nome e un volto noti: "A Daniel Varujan, martire e poeta educato
    sotto questo tetto ai sublimi ideali della fede e della patria...".

    Proprio quel Daniel Varujan, di cui ogni bambino armeno conosce
    a memoria qualche poesia, soggiornò a Venezia, ospite dal 1902 di
    questo palazzo per i suoi studi liceali. Divenuto uno dei grandi
    rappresentanti del Simbolismo europeo, riuscì a fondere i diversi
    orizzonti poetici entro cui si formò (la nativa dimensione orientale
    e quella occidentale) in una sintesi originalissima.

    Nato a Perknik, villaggio dell'Anatolia, il 20 aprile 1884, dopo i
    primi studi a Costantinopoli, proseguì la sua educazione a Venezia,
    dove pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Fremiti (1906). Di
    nuovo in Turchia, si sposò e trovò lavoro come precettore nel Paese
    natale. La sua fama di letterato e poeta crebbe dopo la pubblicazione
    de Il cuore della stirpe (1909) e Canti pagani (1913). Nel 1912 si
    trasferì a Costantinopoli, dove si dedicò con tutte le sue energie
    alla rinascita della cultura e della lingua armena, diventando l'anima
    del movimento che faceva capo alla rivista Navasart. Tre anni dopo,
    arrestato con altri scrittori, intellettuali e uomini politici armeni,
    Varujan venne deportato verso l'interno e ucciso il 28 agosto 1815,
    nel pieno della sua splendida maturita.

    Di lui mi tornano in mente questi versi tratti da Il canto del pane, il
    suo capolavoro incompiuto: "Dolce notte estiva. La testa abbandonata
    sull'aratro/ l'anima sacra del contadino riposa sull'aia./ Nuota
    il grande Silenzio tra le stelle divenute un mare./ L'infinito con
    diecimila occhi ammiccanti mi chiama./ [...] È dolce per me sollevarmi
    sulle ali del silenzio,/ ascoltare soltanto il respiro imperturbabile
    dello Spazio,/ finche i miei occhi si chiudano in un sonno magico,/
    e sotto le mie palpebre rimanga l'Infinito con le sue stelle".

    La tragica vicenda di Daniel Varujan mi aveva suggerito tempo fa
    queste righe - quasi un colloquio col poeta - che la visita a Ca'
    Zenobio mi riporta ora alla memoria: "Era maggio, splendore di natura
    anatolica. Nessuna nube in cielo a minacciare uno di quei temporali
    passeggeri? Niente che facesse presagire l'orrore imminente, come
    accade talvolta quando stanno per aprirsi le cataratte del male? No:
    le stesse venerande chiese ottagonali, cristalli di fede, dovettero
    sembrare eterni a chi allora, candidamente, aveva sperato nel
    prevalere della ragione, dell'umanita, della pacifica convivenza. Ma
    quella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 a Costantinopoli, notte
    per tutto un popolo e vergogna d'Europa, tolse ogni illusione. Tu,
    Daniel, fosti strappato alla tua famiglia, alla giovane moglie e ai due
    teneri figli, un terzo in arrivo. Facesti giusto in tempo a cacciare
    in tasca, con poche altre cose, il manoscritto del poema a cui stavi
    lavorando, Il canto del pane: vero inno gioioso alla vita e al lavoro
    dell'uomo, legato alla sua terra da una misteriosa sacralita. E via,
    verso l'ignoto.

    "Stupisce come riuscissi, anche in uno squallido carcere e nelle
    angosciose trasferte, a scrivere qualche verso. Non occorre calma
    alla poesia, serenita contemplativa?... Ma no: l'apparente idillio dei
    campi da te cantato era gia bagnato dal sangue dei papaveri, segnato
    dalle ferite inferte dalla falce... Chissa come andò, e quali furono
    gli ultimi tuoi moti e pensieri! Fra le cose di cui fosti derubato,
    ti trovarono nelle tasche quel manoscritto, finito poi negli archivi
    polverosi di qualche funzionario della censura turca, ignaro del
    tesoro che custodiva.

    "Dopo la guerra, furono necessarie le più avventurose ricerche e una
    fortuna in denaro per riscattare quelle pagine gualcite. Vennero
    pubblicate tali e quali nel 1921, a Costantinopoli. Oggi anche in
    italiano. Veniva alla luce il tuo capolavoro, come altro tuo figlio:
    non di carne e di sangue come quello che non avevi potuto vedere. Ma
    anch'esso, a suo modo, perfetto. Reso tale dal tuo sacrificio, Daniel".

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