Osservatorio Balcani e Caucaso (Comunicati Stampa)
27 luglio 2012
Il ritratto e il rapace
Paolo Martino
L'incontro con Vartuhi e con il destino che la separò dalla sorella
nel 1946. Vive a Musa Dagh, in Armenia, dove un enorme falco
appollaiato ricorda i combattenti armeni che nel 1915 si opposero alle
truppe ottomane. La quinta puntata del reportage "Dal Caucaso a
Beirut"
Vartuhi fissa il ritratto di Angel, affondando lo sguardo nei segni
che il tempo ha inciso su quel volto. Sessantacinque anni di silenzio
si infrangono nell'umanità del più spontaneo pensiero fraterno: `Dio
la benedica, i suoi occhi sono rimasti gli stessi'. La donna poggia la
foto sul tavolo senza perderla di vista, e rivolgendosi al marito, che
osserva in disparte, lo invita: `Guarda, questa è mia sorella'.
Armenia. Un mastodontico rapace in mattoni rossi presidia l'autostrada
tra la capitale Yerevan e la città sacra di Echmiadzin. Il bus accosta
davanti a un cartello che indica il nome del villaggio adiacente. Non
serve saper leggere l'armeno per capire cosa c'è scritto: l'enorme
falco appollaiato è il simbolo dei combattenti di Musa Dagh, gli
armeni che nel 1915 si opposero alle truppe ottomane arrivate per
deportarli. Questo villaggio e il monumento che lo sovrasta
rappresentano la continuità storica di quella comunità umana: fuggiti
una prima volta in Egitto nel 1915, rientrati a casa nel 1919,
trasferiti in Libano nel 1939, parzialmente rimpatriati nell'Armenia
sovietica nel 1946. L'autobus riparte abbandonando il luogo al sibilo
del vento: dallo zaino tiro fuori il ritratto che mi porto dietro dal
Libano e mi addentro nei viali sterrati, fiancheggiati da case basse.
Il genocidio non è storia. E' presente
Hayk Demoyan, direttore del memoriale del genocidio armeno di Yerevan
`Angel ha dieci anni più di me, e aveva già un figlio quando i nostri
genitori decisero di partire dal Libano per venire qui, in Armenia. Ci
dividemmo: noi siamo partiti per primi, Angel invece rimase ad Anjar,
in attesa di un nostro segnale. Avevo nove anni'. Le mani callose di
Vartuhi continuano a stringere la foto di Angel, la sorella che non
vede dal 1946. In tutta la vita Vartuhi non ha fatto altro che la
contadina in questo villaggio, cittadina dello stato più povero del
Caucaso. `Ma quel segnale non fu mai inviato. Nostro padre impedì che
Angel e la sua famiglia ci raggiungessero. Qui trovammo fame, freddo e
lo spettro della Siberia.'
Sul tavolo, il ritratto della sorella perduta calamita i pensieri,
evocando ricordi lontani come un Graal proveniente da un'altra epoca.
`Partimmo da Beirut a bordo della Pobeda verso il Mar Nero, poi in
treno da Batumi fino a Yerevan. Avevamo grandi sogni, finalmente una
vera patria. Arrivavamo
-
L'intero reportage
-
-
Vai alla pagina dedicata al reportage
-
incoraggiati dai giornali, dalla propaganda, dalla speranza'. Il
pomeriggio scivola veloce sui racconti di Vartuhi, mentre il sole si
affretta a lasciare il posto a una notte glaciale, rendendo ancora più
drastica la distanza dal Libano. Prima che sia buio estraggo la
macchina fotografica, mentre l'anziana si sistema per un ritratto.
Nello sguardo, la stessa luce che qualche giorno fa illuminava gli
occhi della sorella maggiore, sul volto la stessa severità. `Pensi che
Angel riuscirà a riconoscermi?'
Prima di lasciare il villaggio mi addentro nella pancia del rapace,
dove un piccolo museo raccoglie cimeli, documenti, memorie dei
profughi di Musa Dagh. Nelle teche in compensato si glorifica il
sacrificio degli antenati, tentando di trasformare la cicatrice del
passato in una storica sfida da tramandare attraverso le generazioni
in esilio. Un tagliando prestampato racconta la migrazione di Sarkis
Penenian e della sua famiglia, rimasti alla storia grazie
all'ingiallita carta d'imbarco sulla Pobeda. `Familiari al seguito:
cinque. Porto di partenza: Beirut. Porto di arrivo: Batumi. Emesso a
Beirut il 19/9/1946. Firmato: Comitato per il rimpatrio degli armeni
di Libano e Siria'. Prezzo, cinquanta lire libanesi: il viaggio di
sola andata verso l'ignoto si acquistava a prezzi modici.
Dal mio diario.
Da cosa dipende il destino di un profugo? Dalla nave che prende o che
perde, dal consiglio che segue o che ignora. Il campo profughi
palestinese in cui vivo si trova a Beirut semplicemente perché nel '48
i rifugiati riuscirono a fuggire su un treno che faceva servizio tra
Palestina e Libano appena prima che il tunnel ferroviario tra i due
paesi fosse fatto saltare. Così Vartuhi e Angel, le sorelle armene
divise solo da un viaggio in nave di pochi giorni nel 1946, hanno
attraversato un secolo intero senza mai più incontrarsi. La diaspora è
la terra delle circostanze. L'unica patria dei profughi è la memoria,
e la guerra è la loro vera madre.
La nebbia che intrappola Yerevan si scioglie già sulle prime rampe che
salgono verso lo Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio armeno.
Quassù Armenia e diaspora si fondono, ricostituendo simbolicamente
l'unità delle due anime del popolo armeno. Una fiamma sulla sommità
della collina ricorda il milione e mezzo di vittime, mentre a
fondovalle la capitale è coperta da un tappeto bianco di silenzio e
nuvole basse.
`Diaspora e genocidio sono due facce della stessa medaglia. Una
questione rimanda all'altra'. Hayk Demoyan, direttore del memoriale,
mi attende nella semioscurità dei corridoi, dove fotografie e
documenti ricostruiscono le tappe della tragedia subita dal popolo
armeno un secolo fa. `Riconoscere il genocidio è il passo necessario
per dimostrare comprensione per la storia della diaspora'. La politica
di stato turca nega che massacri e deportazioni compiute dall'impero
ottomano a danno degli armeni avessero scopi genocidari, minando le
possibilità di normalizzare le relazioni tra i due paesi.
`Nel 2009 siamo stati ad un passo da un'intesa, ma almeno per ora la
firma dei protocolli non ha portato a nulla'. Gli accordi a cui si
riferisce Demoyan prevedevano la riapertura della frontiera tra
Armenia e Turchia, chiusa dal 1993, riducendo l'isolamento del piccolo
stato caucasico. Oltre alla questione del confine occidentale,
infatti, Yerevan è alle prese con un ventennale conflitto sul Nagorno
- Karabakh con il vicino orientale, l'Azerbaijan. `I tempi non erano
ancora maturi, ma il tempo gioca a nostro favore. Nel giro di qualche
anno potremo raccogliere i frutti della nostra politica di apertura'.
Dalle vetrate panoramiche della hall il Monte Ararat, emblema e
simbolo della saga armena, riempie il cielo man mano che la foschia
lascia il posto a un cielo terso e gelido. Il gigante bianco giace
oltre il confine, in territorio turco, assegnato dalla storia alla
sovranità dell'ingombrante vicino. `Ma l'Armenia non ha pretese
territoriali, l'abbiamo ribadito in tutte le sedi internazionali'.
Dopo un anno trascorso a contatto con la diaspora libanese,
l'approccio di Demoyan alle relazioni con la Turchia suona molto
pragmatico, lontano dalla retorica agguerrita e dai sogni di rivalsa
che serpeggiano tra i quartieri armeni di Beirut. `La diaspora ha
pagato il prezzo più alto della follia genocida ottomana, è per questo
che ha interiorizzato un approccio emotivo. Come cittadini di questo
paese, però, noi dobbiamo guardare alla questione anche con occhio
realistico'.
Il breve giro di sole si chiude dietro il sipario dell'Ararat,
abbandonando i viali di Yerevan alla lunga notte d'autunno. Il centro
storico della capitale armena è il teatro in cui si assiste a uno
spettacolo desolante che va in scena dagli anni novanta: la diaspora
d'oltreoceano, forte del suo potere economico e ansiosa di marcare il
territorio, invade col cemento armato ogni metro disponibile. Schiere
di appartamenti disabitati, vetrine deserte, residenze d'estate,
solitari agenti di polizia privata negli angoli della notte sono il
lascito della politica del laissez faire che il governo armeno riserva
alla sua diaspora. Nel tratto spietato del calcestruzzo si riconosce
lo stessa pena che la diaspora libanese infligge alla sua Beirut.
Stanco, mi rifugio nelle immagini raccolte nei territori in cui loro
malgrado Armenia e Turchia si incontrano. La penna corre.
Dal mio diario
Il filo spinato spezza la continuità assoluta dell'altopiano. Una
formica percorre un segmento di quella trama zincata, fin quando una
raffica di vento la scaglia a terra. Oltre i reticolati, il Monte
Ararat aggredisce l'orizzonte, vicino come sembrano solo le cose che
non si possono toccare. Questo è il limes da cui turchi e armeni
gridano da un secolo l'un l'altro: 'Hic sunt leones'. Queste sono le
Colonne d'Ercole che reggono l'ultimo tratto ancora in piedi della
Cortina di ferro. La formica, ignara, zigzaga a lungo tra i due paesi,
prima di scomparire nella solitudine della prateria. E se invece di
volare a Beirut tornassi indietro via terra?
http://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Il-ritratto-e-il-rapace-120779
From: A. Papazian
27 luglio 2012
Il ritratto e il rapace
Paolo Martino
L'incontro con Vartuhi e con il destino che la separò dalla sorella
nel 1946. Vive a Musa Dagh, in Armenia, dove un enorme falco
appollaiato ricorda i combattenti armeni che nel 1915 si opposero alle
truppe ottomane. La quinta puntata del reportage "Dal Caucaso a
Beirut"
Vartuhi fissa il ritratto di Angel, affondando lo sguardo nei segni
che il tempo ha inciso su quel volto. Sessantacinque anni di silenzio
si infrangono nell'umanità del più spontaneo pensiero fraterno: `Dio
la benedica, i suoi occhi sono rimasti gli stessi'. La donna poggia la
foto sul tavolo senza perderla di vista, e rivolgendosi al marito, che
osserva in disparte, lo invita: `Guarda, questa è mia sorella'.
Armenia. Un mastodontico rapace in mattoni rossi presidia l'autostrada
tra la capitale Yerevan e la città sacra di Echmiadzin. Il bus accosta
davanti a un cartello che indica il nome del villaggio adiacente. Non
serve saper leggere l'armeno per capire cosa c'è scritto: l'enorme
falco appollaiato è il simbolo dei combattenti di Musa Dagh, gli
armeni che nel 1915 si opposero alle truppe ottomane arrivate per
deportarli. Questo villaggio e il monumento che lo sovrasta
rappresentano la continuità storica di quella comunità umana: fuggiti
una prima volta in Egitto nel 1915, rientrati a casa nel 1919,
trasferiti in Libano nel 1939, parzialmente rimpatriati nell'Armenia
sovietica nel 1946. L'autobus riparte abbandonando il luogo al sibilo
del vento: dallo zaino tiro fuori il ritratto che mi porto dietro dal
Libano e mi addentro nei viali sterrati, fiancheggiati da case basse.
Il genocidio non è storia. E' presente
Hayk Demoyan, direttore del memoriale del genocidio armeno di Yerevan
`Angel ha dieci anni più di me, e aveva già un figlio quando i nostri
genitori decisero di partire dal Libano per venire qui, in Armenia. Ci
dividemmo: noi siamo partiti per primi, Angel invece rimase ad Anjar,
in attesa di un nostro segnale. Avevo nove anni'. Le mani callose di
Vartuhi continuano a stringere la foto di Angel, la sorella che non
vede dal 1946. In tutta la vita Vartuhi non ha fatto altro che la
contadina in questo villaggio, cittadina dello stato più povero del
Caucaso. `Ma quel segnale non fu mai inviato. Nostro padre impedì che
Angel e la sua famiglia ci raggiungessero. Qui trovammo fame, freddo e
lo spettro della Siberia.'
Sul tavolo, il ritratto della sorella perduta calamita i pensieri,
evocando ricordi lontani come un Graal proveniente da un'altra epoca.
`Partimmo da Beirut a bordo della Pobeda verso il Mar Nero, poi in
treno da Batumi fino a Yerevan. Avevamo grandi sogni, finalmente una
vera patria. Arrivavamo
-
L'intero reportage
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Vai alla pagina dedicata al reportage
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incoraggiati dai giornali, dalla propaganda, dalla speranza'. Il
pomeriggio scivola veloce sui racconti di Vartuhi, mentre il sole si
affretta a lasciare il posto a una notte glaciale, rendendo ancora più
drastica la distanza dal Libano. Prima che sia buio estraggo la
macchina fotografica, mentre l'anziana si sistema per un ritratto.
Nello sguardo, la stessa luce che qualche giorno fa illuminava gli
occhi della sorella maggiore, sul volto la stessa severità. `Pensi che
Angel riuscirà a riconoscermi?'
Prima di lasciare il villaggio mi addentro nella pancia del rapace,
dove un piccolo museo raccoglie cimeli, documenti, memorie dei
profughi di Musa Dagh. Nelle teche in compensato si glorifica il
sacrificio degli antenati, tentando di trasformare la cicatrice del
passato in una storica sfida da tramandare attraverso le generazioni
in esilio. Un tagliando prestampato racconta la migrazione di Sarkis
Penenian e della sua famiglia, rimasti alla storia grazie
all'ingiallita carta d'imbarco sulla Pobeda. `Familiari al seguito:
cinque. Porto di partenza: Beirut. Porto di arrivo: Batumi. Emesso a
Beirut il 19/9/1946. Firmato: Comitato per il rimpatrio degli armeni
di Libano e Siria'. Prezzo, cinquanta lire libanesi: il viaggio di
sola andata verso l'ignoto si acquistava a prezzi modici.
Dal mio diario.
Da cosa dipende il destino di un profugo? Dalla nave che prende o che
perde, dal consiglio che segue o che ignora. Il campo profughi
palestinese in cui vivo si trova a Beirut semplicemente perché nel '48
i rifugiati riuscirono a fuggire su un treno che faceva servizio tra
Palestina e Libano appena prima che il tunnel ferroviario tra i due
paesi fosse fatto saltare. Così Vartuhi e Angel, le sorelle armene
divise solo da un viaggio in nave di pochi giorni nel 1946, hanno
attraversato un secolo intero senza mai più incontrarsi. La diaspora è
la terra delle circostanze. L'unica patria dei profughi è la memoria,
e la guerra è la loro vera madre.
La nebbia che intrappola Yerevan si scioglie già sulle prime rampe che
salgono verso lo Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio armeno.
Quassù Armenia e diaspora si fondono, ricostituendo simbolicamente
l'unità delle due anime del popolo armeno. Una fiamma sulla sommità
della collina ricorda il milione e mezzo di vittime, mentre a
fondovalle la capitale è coperta da un tappeto bianco di silenzio e
nuvole basse.
`Diaspora e genocidio sono due facce della stessa medaglia. Una
questione rimanda all'altra'. Hayk Demoyan, direttore del memoriale,
mi attende nella semioscurità dei corridoi, dove fotografie e
documenti ricostruiscono le tappe della tragedia subita dal popolo
armeno un secolo fa. `Riconoscere il genocidio è il passo necessario
per dimostrare comprensione per la storia della diaspora'. La politica
di stato turca nega che massacri e deportazioni compiute dall'impero
ottomano a danno degli armeni avessero scopi genocidari, minando le
possibilità di normalizzare le relazioni tra i due paesi.
`Nel 2009 siamo stati ad un passo da un'intesa, ma almeno per ora la
firma dei protocolli non ha portato a nulla'. Gli accordi a cui si
riferisce Demoyan prevedevano la riapertura della frontiera tra
Armenia e Turchia, chiusa dal 1993, riducendo l'isolamento del piccolo
stato caucasico. Oltre alla questione del confine occidentale,
infatti, Yerevan è alle prese con un ventennale conflitto sul Nagorno
- Karabakh con il vicino orientale, l'Azerbaijan. `I tempi non erano
ancora maturi, ma il tempo gioca a nostro favore. Nel giro di qualche
anno potremo raccogliere i frutti della nostra politica di apertura'.
Dalle vetrate panoramiche della hall il Monte Ararat, emblema e
simbolo della saga armena, riempie il cielo man mano che la foschia
lascia il posto a un cielo terso e gelido. Il gigante bianco giace
oltre il confine, in territorio turco, assegnato dalla storia alla
sovranità dell'ingombrante vicino. `Ma l'Armenia non ha pretese
territoriali, l'abbiamo ribadito in tutte le sedi internazionali'.
Dopo un anno trascorso a contatto con la diaspora libanese,
l'approccio di Demoyan alle relazioni con la Turchia suona molto
pragmatico, lontano dalla retorica agguerrita e dai sogni di rivalsa
che serpeggiano tra i quartieri armeni di Beirut. `La diaspora ha
pagato il prezzo più alto della follia genocida ottomana, è per questo
che ha interiorizzato un approccio emotivo. Come cittadini di questo
paese, però, noi dobbiamo guardare alla questione anche con occhio
realistico'.
Il breve giro di sole si chiude dietro il sipario dell'Ararat,
abbandonando i viali di Yerevan alla lunga notte d'autunno. Il centro
storico della capitale armena è il teatro in cui si assiste a uno
spettacolo desolante che va in scena dagli anni novanta: la diaspora
d'oltreoceano, forte del suo potere economico e ansiosa di marcare il
territorio, invade col cemento armato ogni metro disponibile. Schiere
di appartamenti disabitati, vetrine deserte, residenze d'estate,
solitari agenti di polizia privata negli angoli della notte sono il
lascito della politica del laissez faire che il governo armeno riserva
alla sua diaspora. Nel tratto spietato del calcestruzzo si riconosce
lo stessa pena che la diaspora libanese infligge alla sua Beirut.
Stanco, mi rifugio nelle immagini raccolte nei territori in cui loro
malgrado Armenia e Turchia si incontrano. La penna corre.
Dal mio diario
Il filo spinato spezza la continuità assoluta dell'altopiano. Una
formica percorre un segmento di quella trama zincata, fin quando una
raffica di vento la scaglia a terra. Oltre i reticolati, il Monte
Ararat aggredisce l'orizzonte, vicino come sembrano solo le cose che
non si possono toccare. Questo è il limes da cui turchi e armeni
gridano da un secolo l'un l'altro: 'Hic sunt leones'. Queste sono le
Colonne d'Ercole che reggono l'ultimo tratto ancora in piedi della
Cortina di ferro. La formica, ignara, zigzaga a lungo tra i due paesi,
prima di scomparire nella solitudine della prateria. E se invece di
volare a Beirut tornassi indietro via terra?
http://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/Il-ritratto-e-il-rapace-120779
From: A. Papazian