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A bordo della Pobeda

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    Osservatorio Balcani e Caucaso (Comunicati Stampa)
    20 luglio 2012

    A bordo della Pobeda

    Paolo Martino


    Vartuhi è partita da Beirut nel 1946, per raggiungere l'Armenia
    sovietica a bordo della nave "Pobeda". Nella terra di Stalin, però, i
    sopravvissuti al genocidio hanno visto il sogno di una patria
    trasformarsi in incubo. In viaggio verso il Caucaso sui sentieri delle
    migrazioni, quarta puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"


    `Per superare la censura del regime sovietico creammo dei messaggi in
    codice. 'Il pane è buono' voleva dire che si soffriva la fame. 'L'anta
    dell'armadio è rotta' significava persecuzione, prigionia. Se in una
    foto comparivano persone sdraiate, qualcuno era morto. E così via.'
    Nel suo appartamento al centro di Anjar, tremila anime armene tra i
    monti libanesi, Angel ripercorre il filo di memorie familiari che
    risalgono a più di sessant'anni fa, quando sua sorella Vartuhi lasciò
    il Libano per trasferirsi nell'Armenia sovietica. `Fin nelle prime
    lettere si parlava solo di pane e armadi, e pian piano arrivarono
    anche le foto. Capii che l'Armenia non era il paradiso che i russi
    volevano farci credere. E che non avrei più rivisto mia sorella.'


    All'indomani della Seconda guerra mondiale la diaspora armena si trovò
    di fronte all'ennesima sfida. L'Unione sovietica, decisa a
    riequilibrare il vuoto demografico lasciato dai milioni di morti della
    guerra, promosse imponenti campagne di ripopolamento. Le comunità
    armene americane, europee e mediorientali, ansiose di trasferirsi
    finalmente in una `patria' tutta loro, aderirono in massa. A partire
    dal 1946 treni, navi, convogli con la stella rossa trasportarono
    migliaia di figli della diaspora armena a Yerevan, nell'Armenia
    sovietica. Il 70% degli abitanti di Anjar, tremilacinquecento su
    cinquemila, scelse di partire. Tra questi c'era Vartuhi, la sorella di
    Angel.

    `I primi tempi furono duri. Gli armeni libanesi erano abituati a
    spostarsi, a leggere il giornale, a dire quello che pensavano, perciò
    finirono subito sotto l'occhio spietato del regime. Molti furono
    spediti in Siberia, nei campi di concentramento.' La memoria di Angel
    si muove fluida in stagioni lontane, spaziando nella smisurata
    geografia della diaspora come se nessun angolo al mondo fosse alieno.
    `Ma gli armeni di Anjar hanno la pelle dura. Piano piano si sono
    costruiti una vita, una casa, perfino un villaggio, vicino a Yerevan.'
    Interrompo il racconto. `E questo villaggio esiste ancora?' Angel
    sorride: `Certo, si chiama Musa Dagh, come la nostra terra natale. Mia
    sorella vive lì.' Rapita dai ricordi, l'anziana ripercorre gli anni
    della giovinezza, delle scelte irreversibili, mentre nella mia mente
    un'idea dai contorni sfumati si fa sempre più nitida. Salutando Angel
    alla libanese, con tre baci sulla guancia, le faccio una foto e una
    promessa: `tornerò a trovarti presto, con una sorpresa.'
    Dal mio diario. 3 novembre
    Il flusso di memoria che lega il Caucaso al Medio Oriente scorre
    appena sotto la superficie della quotidianità. Gli abitanti di Musa
    Dagh che nel 1939 lasciano la Turchia per trasferirsi in Libano, otto
    anni dopo si mettono in viaggio per l'Armenia. Percorsi a senso unico,
    decisioni senza appello, ma ogni spostamento segna il terreno,
    tracciando una pista che dal Caucaso porta a Beirut, e viceversa.
    Vakif, l'unico dei sette villaggi di Musa Dagh che scelse di restare
    sotto autorità turca, tuttora abitato da armeni; Anjar, il gioiello
    armeno nella valle della Bekaa, oasi pacifica in una delle zone più
    conflittuali del pianeta; la nuova Musa Dagh nella periferia di
    Yerevan, ricovero per chi nel 1946, dopo tanta miseria, pensava di
    aver trovato finalmente la via del Sol dell'Avvenire. Schegge che si
    perdono nella tragedia del genocidio, nei giochi tra potenze, nelle
    macerie delle guerre del Medio Oriente e del Caucaso. L'unico modo per
    risalire all'elemento umano, per capire le scelte delle tante Vartuhi
    e Angel di questa storia, è camminare sui sentieri di quelle
    migrazioni, misurarle col metro dei passi, della pioggia, degli
    orizzonti monotoni dell'altopiano e del deserto.

    `Vado a Yerevan, ho già il biglietto.' Seduto come sempre davanti alla
    saracinesca della fabbrica di scarpe, Rafi soffia il fumo denso del
    narghilè senza scomporsi. `Me l'aspettavo che saresti partito un
    giorno o l'altro. Sei caduto nella paranoia di cercare una logica
    razionale nella storia del mio popolo. Col tempo imparerai che non ne
    vale la pena.' Rafi urla qualcosa in armeno a un ragazzino che in un
    minuto ci serve arak, liquore all'anice allungato con acqua e
    ghiaccio. Un dollaro di mancia e il ragazzino sparisce, inghiottito
    dal caos di Burj Hammoud, il quartiere armeno nella pancia di Beirut.
    `Che vai a fare in Armenia?' Mentre nel vicolo scende la notte, Rafi
    ascolta la storia di Angel e Vartuhi, le sorelle separate dalla
    Pobeda, la nave che trasportò nel 1946 migliaia di armeni libanesi
    oltre la Cortina di ferro. `Voglio ripercorrere quei fatti, sentire la
    parte mancante del racconto.'

    Rafi ordina altro arak. `Metti a fuoco questo principio: in Medio
    Oriente contano i punti di vista, non i fatti.' Burj Hammoud ora è
    vuota, e le parole di Rafi schioccano come pietre. `La storia della
    Pobeda, per esempio, ha smesso di esistere da tanto tempo. Al suo
    posto rimangono i punti vista di chi aveva interesse che gli armeni
    partissero e di chi, al contrario, voleva che restassero. E sopra
    tutto questo, l'Unione sovietica.' L'allusione di Rafi non lascia
    dubbi. `Vuoi dire che anche la comunità armena libanese fu spaccata
    dalla guerra fredda?' Rafi è al terzo bicchiere di arak: `fu una
    guerra fratricida, che uccise centinaia di persone proprio tra questi
    vicoli. A nessuno piace ammetterlo, ma la scia di sangue arriva fino
    ai giorni nostri.'

    Mentre mi allontano tra i vicoli deserti di Burj Hammoud, il rosario
    dei muri crivellati si sgrana sotto i miei occhi. Penso alle parole di
    Rafi, all'ambiguità irrisolta delle guerre civili, al monito che
    sembra arrivare dalle pallottole piantate nei muri: `Non è stato
    l'occupante straniero ad aprire il fuoco, ma il vicino di casa, non
    dimenticarlo mai.' Una scritta fatta con vernice spray pilota le
    riflessioni: `PKK', il partito dei lavoratori curdi. Il movimento nato
    in Turchia negli anni '80 si batte per l'indipendenza del Kurdistan
    turco, regione che coincide con l'antica Armenia occidentale. In nome
    del rancore anti-turco, i figli della diaspora armena sostengono la
    causa curda, pur rivolgendo agli stessi curdi l'accusa di complicità
    con l'esercito ottomano durante il genocidio. Il labirinto di questi
    vicoli è metafora della storia intrigata di chi li abita.

    L'aereo decolla puntuale sul tappeto di cemento di Beirut sud, dove i
    quartieri sciiti riempiono ogni spazio fino a lasciar posto al primo
    verde sui contrafforti della Montagna. Dal pacco di appunti, e-mail e
    carte geografiche che ho stampato in fretta prima di partire sbuca la
    risposta che il professore dell'università armena di Beirut,
    Adakessian, mi ha inviato poche ore fa:

    Dear Paolo,

    I wish you the wisdom you need to discern the fine line and make
    things better understood. Find the contact of Dr. Demoyan, the
    director of the Armenian Genocide Research Insitute in Yerevan. This
    is the Middle East, and the Genocide issue is one of the central
    ingredients of this intriguing complex.

    Regards, A.

    Saggezza, discernimento, intrighi complessi. Dove sto andando
    esattamente? La notte passata a organizzare il viaggio mi ha lasciato
    più dubbi che risposte. E mentre l'immenso blu del cielo e del mare
    libanese lascia il posto a paesaggi plumbei, la testa improvvisamente
    si svuota e il corpo si rifugia in un sonno profondo.

    http://www.balcanicaucaso.org/Dossier/Dal-Caucaso-a-Beirut/Dal-Caucaso-a-Beirut/A-bordo-della-Pobeda-120354

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