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Armeni e turchi: il racconto come cura [Armenia & Turkey: A story as

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  • Armeni e turchi: il racconto come cura [Armenia & Turkey: A story as

    Napoli Monitor, Italia
    24 nov 2012


    Armeni e turchi: il racconto come cura


    da week-end avisen del 16/11/2012

    «Prima uccisero mio nonno e poi deportarono mia madre nel deserto
    siriano, dove per poco non morì di fame. Era solo una bambina allora».
    Inizia così un'intervista di storia orale a Lilith, donna armena di
    ottant'anni, le cui memorie per le atrocità del genocidio armeno del
    1915 abbondano di dettagli, e sono esposte con tale chiarezza che
    sembra quasi sia stata lei a viverle, che fosse lei a giacere
    abbandonata da sola nel deserto in Siria. Invece, le memorie non sono
    le sue, ma della madre, che le ha accuratamente tramandate all'unica
    figlia. Ora sono diventate parte di Lilith, le sue (post)memorie,
    ereditate insieme al dolore, al senso di perdita, e a
    quell'espressione triste negli occhi che solo un sopravvissuto
    all'olocausto può avere.

    Sono arrivata in Armenia per capire se la storia orale può essere un
    metodo di riconciliazione nei rapporti fra turchi e armeni. Quasi
    cento anni sono passati da quando la distruzione della propria
    popolazione cristiana fu perpetrata dagli Ottomani, e la morte di un
    milione e mezzo di armeni ancora oggi non è riconosciuta dal governo
    turco. Nonostante diversi tentativi, i negoziati per vie diplomatiche
    tra i due paesi hanno fallito e il confine resta blindato. A causa di
    un conflitto ormai secolare e in mancanza di un dialogo aperto,
    nessuno dei due popoli ha imparato, e neppure ne ha avuto la
    possibilità, a superare i radicati pregiudizi sull'altro, così che il
    silenzio e il passato irrisolto continuano a pesare su entrambe le
    società.

    Il progetto si chiama `Speaking to One Another', parlare l'uno
    all'altro, un tentativo portato avanti da una ONG di ricercatori
    universitari, studenti e artisti per stabilire un dialogo tra turchi e
    armeni attraverso la storia orale, il cinema, la fotografia e l'arte
    performativa. Seduta nella camera da letto di Lilith, sorseggiando il
    tè nero armeno, ho compreso che un passo è già stato fatto; turchi e
    armeni sono sotto lo stesso tetto, a condividere insieme cibo, tè,
    racconti e storie che sono per la maggior parte censurate in Turchia e
    che in Armenia rappresentano il comune esercizio di memoria di un
    passato doloroso. Il gruppo che sto seguendo consiste di due turchi e
    due armeni. Io siedo in disparte, avida di comprendere le parole di
    Lilith, così come gli stessi turchi, che non hanno cognizione della
    lingua armena.

    Uno degli studenti armeni si sforza di tradurre simultaneamente, ma
    fatica a stare al passo del rapido flusso di Lilith. Per non
    interrompere né disturbare l'intervista, riassume con voce leggera,
    quasi sussurrando: «Dice che non odia i turchi, che non può biasimare
    voi, i giovani della Turchia di oggi, perché non è colpa vostra, ma
    dei vostri antenati». Gli studenti turchi rispondono con un timido
    sorriso, grati e chiaramente sollevati dal fatto che Lilith non sembra
    aver ereditato anche l'odio che ancora oggi molti armeni nutrono.

    Ospitare dei turchi nei villaggi armeni, dove i sopravvissuti al
    genocidio si sono stabiliti per la maggior parte dopo il 1915, a un
    tiro di sasso dal confine turco, è di per sé controverso. Molti
    armeni, come Lilith, non sono mai stati nell'est dell'Anatolia, oggi
    ufficialmente parte della Turchia ma a cui gli armeni si riferiscono
    chiamandola `Armenia dell'ovest', la loro casa. Per loro, questo
    spazio immaginario simbolizza un periodo fiorente della storia armena,
    dove i cristiani vivevano in pace fianco a fianco con i musulmani. Un
    progetto di storia orale simile a `Speaking to One Another' svolto
    l'anno scorso in Turchia ha dimostrato come molti degli abitanti dei
    villaggi turchi ricordano le storie di pacifica convivenza con gli
    armeni, che erano «apprezzati, lavoratori e persone di cultura».

    Questi ricordi positivi raramente trovano spazio nel discorso pubblico
    in Turchia, un dato di fatto che `Speaking to One Another' prova a
    sfidare. Il genocidio armeno è tuttora un tabù nella società turca, e
    chi solleva il dibattito corre il rischio di essere incriminato sulla
    base dell'articolo 301 del codice penale turco, che punisce i
    colpevoli di `offesa all'essere turchi'. Scrittori come Elif Shafak,
    Orhan Pamuk e il giornalista Hrant Dink sono tutti passati per le
    maglie della giustizia solo per aver posto il problema. Hrant Dink,
    cittadino turco di origini armene che ha dedicato la sua vita
    all'opera di riconciliazione fra Turchia e Armenia, ne pagò le estreme
    conseguenze quando fu assassinato nel 2007 da un giovane nazionalista
    turco.

    «Non avrei mai immaginato che un giorno sarei stata seduta a parlare
    con dei turchi in casa mia», la nostra interprete armena traduce le
    ultime parole di Lilith. «Noi armeni abbiamo solo bisogno del
    riconoscimento di ciò che è accaduto, così da poter andare avanti con
    le nostre vite», aggiunge. Tale riconoscimento è molto improbabile nel
    vicino futuro. Quando I due paesi nel 2009 accettarono di iniziare un
    processo di normalizzazione e di stabilire rapporti diplomatici, il
    riconoscimento del genocidio non era neppure una precondizione, e il
    tentativo si arenò presto, probabilmente per le pressioni
    dell'Azerbaigian, alleato sempre fedele alla Turchia, i cui legami con
    essa sono inflessibili non solo per via della comune cultura, ma anche
    a causa dello stesso nemico, l'Armenia.

    Nonostante il fallimento del processo di distensione fra i due stati,
    la riconciliazione fra le persone comuni è forse più importante.
    Sedendo nella casa di Lilith mi viene da pensare ai quaranta
    partecipanti del progetto `Speaking to One Another' che ho conosciuto
    durante la mia permanenza in Armenia. Penso alle amicizie che ho visto
    nascere tra i giovani turchi e armeni, tutte persone riflessive con un
    una grande fiducia nell'attivismo come mezzo per costruire un futuro
    più democratico. Specialmente gli studenti turchi, dissidenti pieni
    della volontà di cambiare lo status quo del loro paese «fascista e
    antidemocratico», come essi lo definiscono. Un giovane turco di Ankara
    mi ha raccontato del suo arresto all'università, sospettato di
    attività terroristiche solo per aver partecipato a due manifestazioni
    per i diritti dei kurdi, apparentemente organizzate dal PKK,
    organizzazione considerata terrorista dalla Turchia e dai paesi
    occidentali. Rischia fino a otto anni di galera per la sua condotta.
    Io vedo solo il suo coraggio, simile a quello della ragazza turca che
    ha rotto i rapporti con la sua famiglia per aver preso parte a questo
    progetto.

    Il racconto di Lilith è solo una delle numerose interviste di storia
    orale che questi giovani sono venuti a raccogliere, e tutte saranno
    incluse in un libro che verrà pubblicato il prossimo anno. Nel
    frattempo, una mostra itinerante girerà varie città del mondo che
    condividono simili conflitti. Oltre a Turchia e Armenia, il progetto
    verrò esibito a Cipro, in Georgia e in Germania, permettendo ai
    visitatori di ascoltare le memorie personali di persone comuni. Lo
    scopo principale del progetto rimane però la possibilità data a
    cittadini armeni e turchi di conoscersi di nuovo dopo decenni di
    silenzio, quel silenzio dove miti e leggendo trovano il tempo di
    crescere e radicarsi. Oltre a ciò, il progetto offre una piattaforma
    di comunicazione e di formazione, ed è la prima volta che il passato
    condiviso di Armenia e Turchia è presentato insieme.

    Spesso è difficile per un paese guardare senza pregiudizi al proprio
    passato, perché la `narrazione di una nazione' (come definita da Homi
    Bhabha) è prima di tutto costruita su storie di eroismo. Perciò il
    meccanismo di difesa da parte turca sembra essere l'atto di negazione.
    Omettere l'oscura eredità dell'impero ottomano e consegnare una
    selettiva, gloriosa, storia alle nuove generazioni ha significato una
    diffusa ignoranza del proprio passato per i giovani turchi. Uno degli
    studenti turchi mi ha confidato: «Crescendo non ho mai sentito parlare
    del genocidio. È stato duro da ingoiare quando ne ho letto un giorno
    accidentalmente». Non solo lo ha `ingoiato', ma ne è diventato
    ossessionato, e si è messo alla ricerca di cos'altro il suo paese gli
    aveva nascosto. La maggior parte dei turchi trascurano o minimizzano i
    fatti del 1915, affermano che anche i turchi musulmani persero la vita
    in gran numero, e diventa presto chiaro che parlare del cruento e non
    così eroico passato rappresenta una minaccia all'identità nazionale.
    Come nella psicologia individuale la negazione dei traumi passati si
    manifesta col tempo in un modo o nell'altro, similmente la negazione
    delle atrocità nazionali si riverbera nella mancanza di confronto
    democratico, e i suoi sintomi sono la violazione dei diritti umani e
    l'eccessivo controllo statale sulla vita dei cittadini. La negazione è
    il meccanismo di una mente immatura, disse una volta Anna Freud. La
    Turchia non sarà mai capace di migliorare la sua democrazia finché non
    riconoscerà che lo stato moderno di cui va fiera si innalza sulle
    macerie di un genocidio. (sanja siljak)

    http://www.napolimonitor.it/2012/11/24/16557/armeni-e-turchi-il-racconto-come-cura.html

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