Linkiesta.it, Italia
28 ottobre 2012
Petrolio e vecchi papaveri: ci sara mai una primavera del Caucaso?
[oil and old Poppies: there will never be a spring in the Caucasus?]
Matteo Vabanesi
Il nome dirà poco ai più: Nagorno-Karabakh. Qui si è combattuta una
guerra all'inizio degli anni '90. Da allora la situazione di stallo
(cessate il fuoco spesso violato) è tra le più serie minacce per la
sicurezza del Caucaso, estrema periferia d'Europa. I vecchi burocrati
dominano, rubando ai giovani persino i sogni.
STEP'ANAKERT - Al primo piano una banca d'investimenti, al secondo
locali commerciali, al terzo e al quarto una sala conferenze e 32
suite, nove di lusso e una presidenziale. «È questa l'unica Europa che
conosciamo», sostiene Haik con distacco, mentre con un cenno mi indica
l'Hotel Europa, il business center inaugurato lo scorso maggio in una
delle vie principali di Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh.
Davanti ai vetri blu cobalto del nuovo complesso, costato 5,5 milioni
di dollari, uno striscione afferma in inglese «Non c'è alternativa
all'indipendenza», mentre lungo il viale, intitolato ai Combattenti
per la libertà, la città sfoggia a ogni lampione un gagliardetto
nazionale. «Le celebrazioni per il 20° anniversario della
dichiarazione d'indipendenza si stanno per concludere», spiega Haik,
che poi aggiunge: «È stata una conquista importante, ma oggi il
Nagorno Karabakh non può vivere solo di slogan».
Proclamata il 2 settembre 1991, la Repubblica del Nagorno Karabakh è
uno stato de facto, non riconosciuto dalla comunità internazionale
(con l'eccezione di Abkhazia, Ossezia del Sud e Transnistria, che a
loro volta però vantano solo una parziale legittimazione). Il cessate
il fuoco siglato con l'Azerbaigian nel maggio 1994 ha congelato lo
scontro militare con Baku, ma non ha portato alla firma di un trattato
di pace, lasciando così irrisolto il conflitto tra i due Paesi. Una
situazione né di guerra né di pace, che è al centro dei negoziati
portati avanti dal Gruppo di Minsk dell'Ocse. Così il Nagorno Karabakh
oggi è «riconosciuto come Stato non riconosciuto», come puntualizza
con garbo Larisa Alaverdyan, direttrice dell'Istituto di Scienze
politiche e Legge all'Università russo-armena di Yerevan.
Hayk Khanumyan ha 28 anni, ed è il direttore dell'European Movement in
Artsakh, una Ong che cura progetti di scambio internazionali tra
l'Università di Stepanakert e le principali facoltà europee. Artsakh,
nell'antichità, era il nome di una delle province del Regno d'Armenia;
oggi è l'appellativo con il quale gli Armeni chiamano il territorio
del Nagorno Karabakh. «Il mancato riconoscimento - sostiene Haik -
limita molto le possibilità di sviluppo del Nagorno Karabakh,
specialmente tra le giovani generazioni. Senza la legittimazione
internazionale, organizzazioni come le Nazioni Unite, l'Ocse o
l'Unione europea non possono aprire uffici sul territorio. Ma ci sono
anche altre conseguenze e problemi più pratici, come ad esempio i
visti per l'estero che possono essere richiesti solo dietro esibizione
di un passaporto armeno».
Anche Diana, moglie di Haik e prossima ad ottenere un dottorato in
Lingue, concorda che il problema centrale è il riconoscimento del
Nagorno Karabakh. Si sono sposati da pochi giorni e abitano in affitto
al quarto piano in un palazzone d'epoca sovietica, non distante dal
centro di Stepanakert. Circa un terzo della popolazione risiede nella
capitale, che conta ormai più di 50 mila abitanti ed accentra, in base
alle statistiche ufficiali del 2010, più del 70% della popolazione
urbana del Nagorno Karabakh. Martouni, la seconda città del Paese, ha
in confronto meno di un decimo degli abitanti. Durante il conflitto,
Stepanakert è stata messa a dura prova dall'artiglieria azera e, al
cessate il fuoco, la ricostruzione ha imposto come priorità
l'emergenza abitativa, alimentata, negli anni, dalla domanda di nuovi
alloggi. Così, mentre poco distante dai nuovi quartieri residenziali
si costruiscono ville con colonne e capitelli ionici, i prezzi del
mercato immobiliare sono saliti alle stelle: più di mille dollari al
metro quadro per un appartamento in centro, una cifra pari alle
abitazioni vip nella Northern Avenue di Yerevan. Con la differenza di
avere un potere d'acquisto nettamente inferiore. Un insegnante
guadagna circa 300 euro al mese, mentre la media mensile dei salari si
aggira intorno ai 200 euro a persona. Senza contare la crisi, con i
principali indicatori economici (salari, Pil, produzione agricola e
industriale) che, nonostante un trend positivo, hanno tutti subito un
rallentamento. E con il risparmio pro capite che nel 2010 ha fatto
registrare un saldo negativo dello 0,6%.
Alle case, però, non hanno ancora fatto seguito i servizi e nemmeno
progetti di sviluppo sociale. A Stepanakert l'amministrazione sta
ultimando un nuovo ospedale, un centro sportivo e una nuova
cattedrale. Gli Armeni della Diaspora hanno inoltre finanziato
università e scuole in tutto il Paese, ma, come fa notare Haik, «negli
atenei prevale ancora una mentalità sovietica, mentre ci vorrebbe una
nuova atmosfera educativa». Nel Nagorno Karabakh il 52% della
popolazione ha un'età compresa tra zero e 30 anni, e per la prima
volta una generazione cresciuta senza il conflitto si trova anche a
riempire il vuoto creato dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica.
«Purtroppo però - prosegue Haik - il corpo docente si è formato in
prevalenza sotto l'Urss e adotta un sistema che non aiuta gli studenti
ad aprirsi e realizzare progetti, a essere innovativi e ad avere il
coraggio di prendere un'iniziativa».
A livello sociale, la guerra ha lasciato un senso di frustrazione per
il tempo che è stato sprecato. Dopo la firma dell'armistizio, in
Karabakh l'economia ha ripreso vigore, specialmente nel settore
minerario. Il sottosuolo è infatti ricco d'oro, diamanti e altri
minerali, estratti principalmente dalla Base Metals. Anche la
produzione industriale e l'agricoltura sono cresciute, ed investimenti
hanno riguardato la telefonia (con la Telekom Karabakh, di proprietà
armeno-libanese) e la produzione di energia idroelettrica. Pure il
turismo, negli anni, è diventato una preziosa risorsa. Per gli Armeni,
in particolare per quelli della Diaspora, il Nagorno Karabakh è ormai
una sorta di luogo simbolico: la storia millenaria dei monasteri di
Gandzasar e Dadivank, immersi in una natura rigogliosa; le rovine di
Tigranakert, i vasti panorami e i piccoli villaggi aggrappati alle
montagne. Un idillio, che è stato però pagato a caro prezzo. Sul
territorio i segni della guerra rimangono comunque ben visibili, con
case distrutte, carcasse di auto e di mezzi militari, bunker e la
presenza continua dell'esercito. Per le strade i più anziani vestono
ancora casacche mimetiche, che in qualche caso coprono le mutilazioni
del corpo. Ci sono poi le ferite nascoste. Dei settemila caduti armeni
nei tre anni di conflitto, circa 4.500 erano originari del Nagorno
Karabakh. Nelle case, quasi tutte le famiglie venerano la foto di un
parente scomparso, e la maggior parte di loro ha vissuto sofferenze
difficili da raccontare, che probabilmente sono ancora più complesse
da dimenticare.
Nonostante un'economia solida, c'è però una realtà che non traspare
dalle statistiche ufficiali. «Lo stato funziona, le istituzioni
lavorano, ma la nostra società rimane molto conservatrice - afferma
Haik - e difende gli ideali ereditati negli anni da Breznev, inclusa
la mancanza di creatività, la passione per la burocrazia e una certa
inclinazione alle teorie del complotto. Le classi dirigenti non hanno
fiducia nelle nuove generazioni, soprattutto se hanno studiato
all'estero, perché i giovani portano con loro valori diversi e una
maggiore intraprendenza. Ma qui, se hai delle iniziative allora
significa che hai delle ambizioni; e se hai delle ambizioni, sei una
minaccia per il Paese. Ed questa mentalità ad imbrigliare lo sviluppo
del Nagorno Karabakh». A Stepanakert come altrove, in mancanza
d'apertura e senza il riconoscimento della comunità internazionale, i
salari rimangono bassi, le prospettive poche, i luoghi di ritrovo
inesistenti e l'emigrazione, soprattutto giovanile, è diventata una
costante. Con le statistiche che misurano i flussi migratori solo in
base alla perdita della cittadinanza, invece di rilevare sul nascere i
primi segni di un conflitto generazionale.
Con Haik raggiungiamo lo Stepanakert Press Club (Spc), un'associazione
nata nel 1998 per la promozione della libertà d'informazione. Per
quattro anni, dal 2004 al 2008, il Press Club ha dato alle stampe
Demo, il primo quotidiano indipendente del Karabakh, mentre oggi cura
l'edizione di Analyticon, un magazine in tre lingue realizzato in
collaborazione con l'Unione Europea e diffuso in tutta la regione del
Caucaso. È qui che incontro Masis Mayilian, presidente del Council for
Foreign and Security Policy, partner del Press Club e molto altro. Nel
1993 Masis ha fatto parte del team di negoziatori che ha concluso il
cessate il fuoco e fino al 2007 è stato vice ministro degli Esteri.
«Dopo la fine del conflitto una delle priorità principali è stata la
costruzione del Nagorno Karabakh come amministrazione statale - spiega
Mayilian - Abbiamo creato il migliore esercito della regione, una
struttura di governo e abbiamo strenuamente difeso la nostra
indipendenza. Certo, molte cose sono ancora da fare: c'è bisogno di
maggiore democrazia, di più diritti umani, di media più indipendenti.
Ma in ogni caso la nostra situazione non è certo paragonabile a quanto
accade oggi in Azerbaigian».
Mayilian non si riferisce solo al caso Safarov, l'ufficiale azero
proclamato eroe nazionale dopo aver ucciso nel sonno, a colpi d'ascia,
un militare armeno durante un'esercitazione Nato. In Azerbaigian il
presidente Aliyev agita lo spettro del Nagorno Karabakh per mantenere
alta la mobilitazione all'interno del Paese. Inoltre, un'intensa
attività di lobbying internazionale, insieme alla scelta rilevata da
molti esperti di destinare il 20% del Pil all'acquisto di armi e altre
spese militari, lasciano pensare che la minaccia di una nuova guerra
non sia così lontana. Secondo i dati del Ministero della Difesa
karabakho, nella sola settimana tra il 14 e il 20 ottobre sono state
250 le infrazioni al cessate il fuoco. La tensione è alta, soprattutto
nelle province di Martakert e Hadrut, anche se le violazioni sono per
ora classificate a bassa intensità.
«Non è comunque facile convivere tutti i giorni con le minacce di un
sistema autocratico - commenta Vahram Soghomonyan, ricercatore in
Scienze politiche e autore di numerosi articoli sui problemi della
regione - Ma c'è una nuova generazione che sta nascendo, connessa con
i cambiamenti che vengono dal Medio Oriente e per il Nagorno Karabakh
l'argomento più forte contro il petrolio azero può essere solo la
democrazia». Anche Larisa Alaverdyan, la direttrice dell'Istituto di
Scienze politiche e Legge all'Università Russo-armena di Yerevan, è
certa che «essere liberi significhi essere sicuri», e che per
garantire la sicurezza del Karabakh gli ideali democratici siano
importanti quanto l'esercito. Così lo scorso luglio, alle ultime
elezioni presidenziali, una sconfitta ha fatto invece segnare
un'importante vittoria. Le votazioni hanno confermato il Presidente
uscente Bako Sahakyan, ma nonostante il nemico alle porte il candidato
delle opposizioni, Vitaly Balasanyan, ha ottenuto oltre il 30% dei
consensi. Un risultato raggiunto anche grazie ai voti delle giovani
generazioni. «In vent'anni d'indipendenza si tratta di un successo
senza precedenti - chiarisce Alaverdyan - soprattutto perché stiamo
parlando di paesi ex sovietici, dove tutti erano felici di ogni cosa.
Non voglio cedere a facili entusiasmi, ma questa è la prova che il
Nagorno Karabakh non è una natura morta, e che non esiste solo sulla
carta. Ci potranno essere ingiustizie e disuguaglianze, ma il pericolo
di un'attitudine totalitaria è ormai alle spalle, perchè i cittadini
iniziano ad essere più consapevoli e dimostrano di avere una maggior
coscienza civile».
Per un'armena di Baku come Larisa Alaverdyan, la questione del
Karabakh assume un'importanza tutta particolare. Nella marshrutka la
musica pop sembra scandire senza sosta lo scorrere dei tornanti, e
presto il profilo di Stepanakert si perde all'orizzonte. Con una mano
al volante e l'altra incollata al cellulare, l'autista divora
chilometri mentre pianifica i suoi piccoli commerci. Il corridoio di
Lachin, soprannominato dagli Armeni del Karabakh `la strada della
vita', si arrampica per chilometri prima di scendere verso Goris e la
frontiera. Durante la guerra questa era l'unica via di comunicazione
con Yerevan e, per la sua importanza strategica, è stata al centro di
numerose battaglie. Oggi Lachin ha cambiato nome e si chiama Berdzor,
ma è rimasta la principale via di collegamento con l'Armenia.
L'aeroporto di Stepankert è stato infatti inaugurato lo scorso 2
ottobre, ma non può essere ancor utilizzato. Secondo il governo azero,
i voli rappresentano una violazione del proprio spazio aereo, e Baku
ha minacciato quindi di abbatterli. «Per l'Azerbaigian il conflitto è
un ostacolo alla democrazia - evidenzia Alaverdyan - Ma se un Paese
vuole essere democratico, allora deve essere pronto a tutto. E se il
piccolo Nagorno Karabakh è un freno per l'Azerbaigian, il grande
Azerbaigian non è certo un ostacolo per il Karabakh».
http://www.linkiesta.it/nagorno-karabakh
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress
28 ottobre 2012
Petrolio e vecchi papaveri: ci sara mai una primavera del Caucaso?
[oil and old Poppies: there will never be a spring in the Caucasus?]
Matteo Vabanesi
Il nome dirà poco ai più: Nagorno-Karabakh. Qui si è combattuta una
guerra all'inizio degli anni '90. Da allora la situazione di stallo
(cessate il fuoco spesso violato) è tra le più serie minacce per la
sicurezza del Caucaso, estrema periferia d'Europa. I vecchi burocrati
dominano, rubando ai giovani persino i sogni.
STEP'ANAKERT - Al primo piano una banca d'investimenti, al secondo
locali commerciali, al terzo e al quarto una sala conferenze e 32
suite, nove di lusso e una presidenziale. «È questa l'unica Europa che
conosciamo», sostiene Haik con distacco, mentre con un cenno mi indica
l'Hotel Europa, il business center inaugurato lo scorso maggio in una
delle vie principali di Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh.
Davanti ai vetri blu cobalto del nuovo complesso, costato 5,5 milioni
di dollari, uno striscione afferma in inglese «Non c'è alternativa
all'indipendenza», mentre lungo il viale, intitolato ai Combattenti
per la libertà, la città sfoggia a ogni lampione un gagliardetto
nazionale. «Le celebrazioni per il 20° anniversario della
dichiarazione d'indipendenza si stanno per concludere», spiega Haik,
che poi aggiunge: «È stata una conquista importante, ma oggi il
Nagorno Karabakh non può vivere solo di slogan».
Proclamata il 2 settembre 1991, la Repubblica del Nagorno Karabakh è
uno stato de facto, non riconosciuto dalla comunità internazionale
(con l'eccezione di Abkhazia, Ossezia del Sud e Transnistria, che a
loro volta però vantano solo una parziale legittimazione). Il cessate
il fuoco siglato con l'Azerbaigian nel maggio 1994 ha congelato lo
scontro militare con Baku, ma non ha portato alla firma di un trattato
di pace, lasciando così irrisolto il conflitto tra i due Paesi. Una
situazione né di guerra né di pace, che è al centro dei negoziati
portati avanti dal Gruppo di Minsk dell'Ocse. Così il Nagorno Karabakh
oggi è «riconosciuto come Stato non riconosciuto», come puntualizza
con garbo Larisa Alaverdyan, direttrice dell'Istituto di Scienze
politiche e Legge all'Università russo-armena di Yerevan.
Hayk Khanumyan ha 28 anni, ed è il direttore dell'European Movement in
Artsakh, una Ong che cura progetti di scambio internazionali tra
l'Università di Stepanakert e le principali facoltà europee. Artsakh,
nell'antichità, era il nome di una delle province del Regno d'Armenia;
oggi è l'appellativo con il quale gli Armeni chiamano il territorio
del Nagorno Karabakh. «Il mancato riconoscimento - sostiene Haik -
limita molto le possibilità di sviluppo del Nagorno Karabakh,
specialmente tra le giovani generazioni. Senza la legittimazione
internazionale, organizzazioni come le Nazioni Unite, l'Ocse o
l'Unione europea non possono aprire uffici sul territorio. Ma ci sono
anche altre conseguenze e problemi più pratici, come ad esempio i
visti per l'estero che possono essere richiesti solo dietro esibizione
di un passaporto armeno».
Anche Diana, moglie di Haik e prossima ad ottenere un dottorato in
Lingue, concorda che il problema centrale è il riconoscimento del
Nagorno Karabakh. Si sono sposati da pochi giorni e abitano in affitto
al quarto piano in un palazzone d'epoca sovietica, non distante dal
centro di Stepanakert. Circa un terzo della popolazione risiede nella
capitale, che conta ormai più di 50 mila abitanti ed accentra, in base
alle statistiche ufficiali del 2010, più del 70% della popolazione
urbana del Nagorno Karabakh. Martouni, la seconda città del Paese, ha
in confronto meno di un decimo degli abitanti. Durante il conflitto,
Stepanakert è stata messa a dura prova dall'artiglieria azera e, al
cessate il fuoco, la ricostruzione ha imposto come priorità
l'emergenza abitativa, alimentata, negli anni, dalla domanda di nuovi
alloggi. Così, mentre poco distante dai nuovi quartieri residenziali
si costruiscono ville con colonne e capitelli ionici, i prezzi del
mercato immobiliare sono saliti alle stelle: più di mille dollari al
metro quadro per un appartamento in centro, una cifra pari alle
abitazioni vip nella Northern Avenue di Yerevan. Con la differenza di
avere un potere d'acquisto nettamente inferiore. Un insegnante
guadagna circa 300 euro al mese, mentre la media mensile dei salari si
aggira intorno ai 200 euro a persona. Senza contare la crisi, con i
principali indicatori economici (salari, Pil, produzione agricola e
industriale) che, nonostante un trend positivo, hanno tutti subito un
rallentamento. E con il risparmio pro capite che nel 2010 ha fatto
registrare un saldo negativo dello 0,6%.
Alle case, però, non hanno ancora fatto seguito i servizi e nemmeno
progetti di sviluppo sociale. A Stepanakert l'amministrazione sta
ultimando un nuovo ospedale, un centro sportivo e una nuova
cattedrale. Gli Armeni della Diaspora hanno inoltre finanziato
università e scuole in tutto il Paese, ma, come fa notare Haik, «negli
atenei prevale ancora una mentalità sovietica, mentre ci vorrebbe una
nuova atmosfera educativa». Nel Nagorno Karabakh il 52% della
popolazione ha un'età compresa tra zero e 30 anni, e per la prima
volta una generazione cresciuta senza il conflitto si trova anche a
riempire il vuoto creato dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica.
«Purtroppo però - prosegue Haik - il corpo docente si è formato in
prevalenza sotto l'Urss e adotta un sistema che non aiuta gli studenti
ad aprirsi e realizzare progetti, a essere innovativi e ad avere il
coraggio di prendere un'iniziativa».
A livello sociale, la guerra ha lasciato un senso di frustrazione per
il tempo che è stato sprecato. Dopo la firma dell'armistizio, in
Karabakh l'economia ha ripreso vigore, specialmente nel settore
minerario. Il sottosuolo è infatti ricco d'oro, diamanti e altri
minerali, estratti principalmente dalla Base Metals. Anche la
produzione industriale e l'agricoltura sono cresciute, ed investimenti
hanno riguardato la telefonia (con la Telekom Karabakh, di proprietà
armeno-libanese) e la produzione di energia idroelettrica. Pure il
turismo, negli anni, è diventato una preziosa risorsa. Per gli Armeni,
in particolare per quelli della Diaspora, il Nagorno Karabakh è ormai
una sorta di luogo simbolico: la storia millenaria dei monasteri di
Gandzasar e Dadivank, immersi in una natura rigogliosa; le rovine di
Tigranakert, i vasti panorami e i piccoli villaggi aggrappati alle
montagne. Un idillio, che è stato però pagato a caro prezzo. Sul
territorio i segni della guerra rimangono comunque ben visibili, con
case distrutte, carcasse di auto e di mezzi militari, bunker e la
presenza continua dell'esercito. Per le strade i più anziani vestono
ancora casacche mimetiche, che in qualche caso coprono le mutilazioni
del corpo. Ci sono poi le ferite nascoste. Dei settemila caduti armeni
nei tre anni di conflitto, circa 4.500 erano originari del Nagorno
Karabakh. Nelle case, quasi tutte le famiglie venerano la foto di un
parente scomparso, e la maggior parte di loro ha vissuto sofferenze
difficili da raccontare, che probabilmente sono ancora più complesse
da dimenticare.
Nonostante un'economia solida, c'è però una realtà che non traspare
dalle statistiche ufficiali. «Lo stato funziona, le istituzioni
lavorano, ma la nostra società rimane molto conservatrice - afferma
Haik - e difende gli ideali ereditati negli anni da Breznev, inclusa
la mancanza di creatività, la passione per la burocrazia e una certa
inclinazione alle teorie del complotto. Le classi dirigenti non hanno
fiducia nelle nuove generazioni, soprattutto se hanno studiato
all'estero, perché i giovani portano con loro valori diversi e una
maggiore intraprendenza. Ma qui, se hai delle iniziative allora
significa che hai delle ambizioni; e se hai delle ambizioni, sei una
minaccia per il Paese. Ed questa mentalità ad imbrigliare lo sviluppo
del Nagorno Karabakh». A Stepanakert come altrove, in mancanza
d'apertura e senza il riconoscimento della comunità internazionale, i
salari rimangono bassi, le prospettive poche, i luoghi di ritrovo
inesistenti e l'emigrazione, soprattutto giovanile, è diventata una
costante. Con le statistiche che misurano i flussi migratori solo in
base alla perdita della cittadinanza, invece di rilevare sul nascere i
primi segni di un conflitto generazionale.
Con Haik raggiungiamo lo Stepanakert Press Club (Spc), un'associazione
nata nel 1998 per la promozione della libertà d'informazione. Per
quattro anni, dal 2004 al 2008, il Press Club ha dato alle stampe
Demo, il primo quotidiano indipendente del Karabakh, mentre oggi cura
l'edizione di Analyticon, un magazine in tre lingue realizzato in
collaborazione con l'Unione Europea e diffuso in tutta la regione del
Caucaso. È qui che incontro Masis Mayilian, presidente del Council for
Foreign and Security Policy, partner del Press Club e molto altro. Nel
1993 Masis ha fatto parte del team di negoziatori che ha concluso il
cessate il fuoco e fino al 2007 è stato vice ministro degli Esteri.
«Dopo la fine del conflitto una delle priorità principali è stata la
costruzione del Nagorno Karabakh come amministrazione statale - spiega
Mayilian - Abbiamo creato il migliore esercito della regione, una
struttura di governo e abbiamo strenuamente difeso la nostra
indipendenza. Certo, molte cose sono ancora da fare: c'è bisogno di
maggiore democrazia, di più diritti umani, di media più indipendenti.
Ma in ogni caso la nostra situazione non è certo paragonabile a quanto
accade oggi in Azerbaigian».
Mayilian non si riferisce solo al caso Safarov, l'ufficiale azero
proclamato eroe nazionale dopo aver ucciso nel sonno, a colpi d'ascia,
un militare armeno durante un'esercitazione Nato. In Azerbaigian il
presidente Aliyev agita lo spettro del Nagorno Karabakh per mantenere
alta la mobilitazione all'interno del Paese. Inoltre, un'intensa
attività di lobbying internazionale, insieme alla scelta rilevata da
molti esperti di destinare il 20% del Pil all'acquisto di armi e altre
spese militari, lasciano pensare che la minaccia di una nuova guerra
non sia così lontana. Secondo i dati del Ministero della Difesa
karabakho, nella sola settimana tra il 14 e il 20 ottobre sono state
250 le infrazioni al cessate il fuoco. La tensione è alta, soprattutto
nelle province di Martakert e Hadrut, anche se le violazioni sono per
ora classificate a bassa intensità.
«Non è comunque facile convivere tutti i giorni con le minacce di un
sistema autocratico - commenta Vahram Soghomonyan, ricercatore in
Scienze politiche e autore di numerosi articoli sui problemi della
regione - Ma c'è una nuova generazione che sta nascendo, connessa con
i cambiamenti che vengono dal Medio Oriente e per il Nagorno Karabakh
l'argomento più forte contro il petrolio azero può essere solo la
democrazia». Anche Larisa Alaverdyan, la direttrice dell'Istituto di
Scienze politiche e Legge all'Università Russo-armena di Yerevan, è
certa che «essere liberi significhi essere sicuri», e che per
garantire la sicurezza del Karabakh gli ideali democratici siano
importanti quanto l'esercito. Così lo scorso luglio, alle ultime
elezioni presidenziali, una sconfitta ha fatto invece segnare
un'importante vittoria. Le votazioni hanno confermato il Presidente
uscente Bako Sahakyan, ma nonostante il nemico alle porte il candidato
delle opposizioni, Vitaly Balasanyan, ha ottenuto oltre il 30% dei
consensi. Un risultato raggiunto anche grazie ai voti delle giovani
generazioni. «In vent'anni d'indipendenza si tratta di un successo
senza precedenti - chiarisce Alaverdyan - soprattutto perché stiamo
parlando di paesi ex sovietici, dove tutti erano felici di ogni cosa.
Non voglio cedere a facili entusiasmi, ma questa è la prova che il
Nagorno Karabakh non è una natura morta, e che non esiste solo sulla
carta. Ci potranno essere ingiustizie e disuguaglianze, ma il pericolo
di un'attitudine totalitaria è ormai alle spalle, perchè i cittadini
iniziano ad essere più consapevoli e dimostrano di avere una maggior
coscienza civile».
Per un'armena di Baku come Larisa Alaverdyan, la questione del
Karabakh assume un'importanza tutta particolare. Nella marshrutka la
musica pop sembra scandire senza sosta lo scorrere dei tornanti, e
presto il profilo di Stepanakert si perde all'orizzonte. Con una mano
al volante e l'altra incollata al cellulare, l'autista divora
chilometri mentre pianifica i suoi piccoli commerci. Il corridoio di
Lachin, soprannominato dagli Armeni del Karabakh `la strada della
vita', si arrampica per chilometri prima di scendere verso Goris e la
frontiera. Durante la guerra questa era l'unica via di comunicazione
con Yerevan e, per la sua importanza strategica, è stata al centro di
numerose battaglie. Oggi Lachin ha cambiato nome e si chiama Berdzor,
ma è rimasta la principale via di collegamento con l'Armenia.
L'aeroporto di Stepankert è stato infatti inaugurato lo scorso 2
ottobre, ma non può essere ancor utilizzato. Secondo il governo azero,
i voli rappresentano una violazione del proprio spazio aereo, e Baku
ha minacciato quindi di abbatterli. «Per l'Azerbaigian il conflitto è
un ostacolo alla democrazia - evidenzia Alaverdyan - Ma se un Paese
vuole essere democratico, allora deve essere pronto a tutto. E se il
piccolo Nagorno Karabakh è un freno per l'Azerbaigian, il grande
Azerbaigian non è certo un ostacolo per il Karabakh».
http://www.linkiesta.it/nagorno-karabakh
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress