Osservatorio Balcani e Caucaso, Italia
30 ott 2013
La sottile linea rossa del Nagorno Karabakh
Laurence Broers*
30 ottobre 2013
A vent'anni dal cessate il fuoco, il processo di pace in Nagorno
Karabakh è congelato. Per evitare la crescente militarizzazione delle
società armena e azera, e una nuova guerra, esistono molte strade che
possono essere percorse
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su commonspace.eu
Il conflitto armeno-azero per il Nagorno Karabakh (NK) non attira
molti titoli di giornale in questo periodo, ma chi lo segue con
attenzione percepisce un crescente senso di urgenza. L'anno prossimo
saranno passati vent'anni dal cessate il fuoco: nonostante le cinque
diverse proposte e qualche scampato pericolo per il processo di pace,
il quadro generale è di arroccamento, crescente militarizzazione e
contagio del conflitto in tutte le sfere della vita politica in
Armenia e Azerbaijan.
Il rischio di una guerra per caso
L'Armenia e gli armeni del NK, vincitori della guerra del 1991-1994,
difendono con pervicacia lo status quo, occupando anche ampie fasce di
territorio azero. Territori una volta pedine di scambio sono sempre
più visti come organici e irrinunciabili. Mollare la presa diventa più
difficile ogni giorno che passa, ma conservare quei territori
rappresenta una dimostrazione di forza che indebolisce le pretese
armene su altri aspetti del conflitto.
L'Azerbaijan, trasformato nel corso degli ultimi cinque anni dalla
ricchezza prodotta dai petrodollari del Caspio, guida una corsa agli
armamenti da 4 miliardi di dollari l'anno. La retorica bellica è
diventata parte integrante del volto pubblico del regime di Aliyev,
chiudendo la porta ad alternative non violente. Al momento nessuno sa
che cosa significhi la promessa del "più alto livello di autonomia nel
mondo" per il Karabakh armeno; l'unico punto di riferimento è la
Regione Autonoma di epoca sovietica, che ci porta indietro di 25 anni
alle cause del conflitto. Una strategia di soft power per la
trasformazione nonviolenta del conflitto era possibile, ma nel corso
dell'ultimo decennio l'Azerbaijan sembra aver optato per le maniere
forti.
Tensioni e minacce reciproche non sono nuove, ma il militarismo
crescente va giudicato alla luce di altri due fattori. Il primo è
l'ampiezza del dispiegamento militare sul terreno: lungo una linea di
contatto di 160 miglia si fronteggiano circa 40.000 soldati, molti dei
quali matricole. Negli ultimi anni, le frequenti scaramucce hanno
causato un crescente numero di vittime. C'è un rischio concreto di
guerra accidentale, di un'escalation involontaria che sfugga di mano.
Non ci sono linee di comunicazione lungo tutto il fronte, e la
capacità internazionale di condurre indagini sugli incidenti è minima.
Inoltre, gli armamenti di nuova acquisizione renderebbero una nuova
guerra molto più ampia e distruttiva della precedente. Con gli attuali
schemi di alleanza geopolitica, le ricadute potrebbero essere
difficili da circoscrivere. Improbabile una guerra dei cinque giorni
del genere visto in Georgia nel 2008; legittima la preoccupazione che
le leadership armene e azere si siano cacciate in un terribile gioco
di posizione con poco spazio di manovra.
La militarizzazione della società
Il secondo fattore è il lento deterioramento delle relazioni
Stato-società in entrambi i Paesi. Fare opposizione e promuovere il
pluralismo è diventato un gioco sempre più pericoloso: un gioco per
chi detiene il potere, pericoloso per chi lo mette in discussione. Il
numero di armeni che hanno deciso di esprimere il proprio dissenso
prendendo la via dell'emigrazione è un problema serio nel paese,
mentre l'Azerbaijan è stato scosso da esplosioni di protesta popolare
contro il malgoverno locale. Al di là della natura - esterna o interna
- di queste manifestazioni di scontento, è chiaro che il crescente
militarismo si sta sviluppando in un contesto di relazioni
Stato-società sempre più impoverite e disfunzionali, cosa che
ignoriamo a nostro rischio e pericolo.
Che cosa dovrebbe fare la comunità internazionale, ovvero noi? In
primo luogo, aggiornare il nostro kit di strumenti concettuali. Usare
per il Karabakh categorie intrinsecamente statiche, retrospettive e
intellettualmente pigre come `conflitto congelato', "né guerra, né
pace" o "conflitto post-sovietico" asseconda un senso di
autocompiacimento non giustificato dall'attuale situazione sul campo.
Questo conflitto ha sempre meno in comune con la Transnistria o
l'Abkhazia e sempre di più con rivalità inter-statali di lungo periodo
del genere visto tra India e Pakistan, le due Coree o Israele e alcuni
vicini arabi. Questo accostamento potrebbe sembrare pessimista, ma
un'analisi comparativa di questi contesti - e dei casi di risoluzione
di successo - sembrerebbe opportuna.
In secondo luogo, se accettiamo questo tipo di ri-contestualizzazione
del conflitto, ne consegue che dovremmo anche rivedere le nostre
strategie per risolverlo. Abbiamo vissuto per molti anni con l'idea
che un processo di pace mediato a livello internazionale porti
gradualmente verso un accordo. Tuttavia, come dimostra anche la storia
dei colloqui di pace in Karabakh, questa idea è nettamente in
contrasto con i processi reali, controllati e non controllati, in
corso in Armenia e Azerbaijan. Non è il conflitto ad essere stato
congelato, ma il processo di pace, come la superficie di un fiume
ghiacciato sotto la quale continuano a fluire correnti sconosciute.
O tutto o niente
Il nostro pensiero strategico è bloccato dal divario tra progresso
auspicato e realtà dell'impasse. Si pensa che mantenere congelato il
processo di pace sia il male minore, e che la gestione del conflitto
sia il massimo che si possa sperare. Sembra che l'unica scelta sia fra
un accordo di pace, che a questo punto sembra utopico al limite del
fantastico, o una nuova guerra. Scelte `o tutto o niente' come questa
sono estremamente attraenti per leader semi-autoritari, ma hanno
pesanti implicazioni, presenti e future, per chi è più vicino alla
prima linea. Perché l'orizzonte di possibilità deve essere definito in
termini così ristretti, e da chi? Nonostante le prevedibili obiezioni
azere contro il radicamento dello status quo e quelle armene in
materia di sicurezza, credo che aprire e diversificare questo menù sia
una priorità per il processo di pace in Karabakh.
Ci sono un certo numero di organizzazioni europee di peace-building
che lavorano con partner locali verso questo obiettivo, tra cui un
consorzio finanziato dall'Unione europea e noto come European
Partnership for the Peaceful Resolution of the Conflict over
Nagorno-Karabakh (EPNK). Sosteniamo le iniziative armeno-azere per la
ricerca e il dialogo, i contatti tra le persone, il lavoro
transfrontaliero dei media e l'attivismo con i giovani, le donne e le
comunità sfollate. Chi è esposto solo alla guerra dell'informazione
nei media internazionali rimane regolarmente sorpreso del livello di
interazione raggiunto. Ma questi sforzi rimangono, purtroppo, di basso
profilo. I budget sono una frazione di ciò che viene speso per le
campagne di comunicazione finanziate dallo Stato o i nuovi armamenti.
I nostri partner nella società civile sono impegnati su più fronti. E
molti - insider e outsider - trovano l'agenda petrolifera e del gas
più stimolante del processo di pace nella regione.
Quale via di mezzo?
Questi sono alcuni dei motivi per cui è difficile ritagliare una terza
via fra una nuova guerra e un accordo di pace eccessivamente utopico.
Eppure vi è una vasta gamma di vie di mezzo che possono essere
adottate, in primo luogo dai governi di Armenia e Azerbaijan, per
introdurre una nuova dinamica nella situazione attuale. Innanzitutto,
abbandonare la retorica militaristica perché, nelle parole di uno dei
nostri partner, "anche il miglior piano di pace fallirebbe nel clima
attuale". Più concretamente, in termini di prevenzione, altre
soluzioni potrebbero essere il ritiro dei cecchini, reintrodurre linee
di comunicazione che attraversino la linea del fronte e creare
meccanismi di indagine più robusti in caso di incidente da parte delle
organizzazioni internazionali.
Le visite transfrontaliere, abbastanza regolari prima del 2003,
dovrebbero essere reintrodotte nel repertorio di iniziative
armeno-azere. Gli sfollati dovrebbero essere autorizzati a visitare le
loro comunità d'origine in sicurezza e dignità, perché chi lo desidera
possa ristabilire i legami. Questa iniziativa dovrebbe essere
reciproca, vale a dire su entrambi i lati del conflitto, per
garantirne la legittimità. Progetti pilota potrebbero sostenere il
ritorno degli sfollati, il restauro di monumenti e la loro
conservazione comune come ponte tra le comunità, anziché essere usati
come simboli della loro distruzione. Piuttosto che spendere soldi in
nuovi libri che cercano di dimostrare che gli armeni non fanno parte
del Caucaso, l'Azerbaijan potrebbe istituire un Fondo culturale
armeno, promuovere il recupero del patrimonio in modo collaborativo e
invertire le tendenze distruttive degli ultimi anni. E piuttosto che
permettere e promuovere mappe che raffigurano il bottino di guerra
come territori organici, Armenia e NK potrebbero pianificare il
ritorno dei territori occupati sotto la giurisdizione azera.
Queste idee sono senza dubbio considerate ingenue, impraticabili e
pericolose, soprattutto da chi è al potere: rafforzano lo status quo,
compromettono la sicurezza. Ma sono di gran lunga più modeste di
quelle contenute nei principi di Madrid che sono stati discussi al
tavolo dei negoziati di più alto livello per oltre cinque anni. Quello
che tali iniziative potrebbero raggiungere è la liberazione delle
società armena e azera da una politica permanente di autoritarismo
securitario e scelte `o tutto o niente'.
Qual è l'alternativa? Se la via di mezzo `positiva' è più realistica
di un accordo di pace utopico, quella `negativa' è più reale di una
nuova guerra. Questo è ciò che abbiamo oggi in Armenia e Azerbaijan:
un conflitto che avvelena lentamente tutti i campi della vita sociale
e politica. Se ne avvantaggiano coloro che ne fanno uso come arma
nelle lotte interne, ma il rischio crescente è che a un certo punto
perderanno il controllo e si troveranno ad affrontare una tigre
sconosciuta, da loro stessi creata.
*Laurence Broers, è Project Manager per il Caucaso di Conciliation Resources
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Nagorno-Karabakh/La-sottile-linea-rossa-del-Nagorno-Karabakh-143621
30 ott 2013
La sottile linea rossa del Nagorno Karabakh
Laurence Broers*
30 ottobre 2013
A vent'anni dal cessate il fuoco, il processo di pace in Nagorno
Karabakh è congelato. Per evitare la crescente militarizzazione delle
società armena e azera, e una nuova guerra, esistono molte strade che
possono essere percorse
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su commonspace.eu
Il conflitto armeno-azero per il Nagorno Karabakh (NK) non attira
molti titoli di giornale in questo periodo, ma chi lo segue con
attenzione percepisce un crescente senso di urgenza. L'anno prossimo
saranno passati vent'anni dal cessate il fuoco: nonostante le cinque
diverse proposte e qualche scampato pericolo per il processo di pace,
il quadro generale è di arroccamento, crescente militarizzazione e
contagio del conflitto in tutte le sfere della vita politica in
Armenia e Azerbaijan.
Il rischio di una guerra per caso
L'Armenia e gli armeni del NK, vincitori della guerra del 1991-1994,
difendono con pervicacia lo status quo, occupando anche ampie fasce di
territorio azero. Territori una volta pedine di scambio sono sempre
più visti come organici e irrinunciabili. Mollare la presa diventa più
difficile ogni giorno che passa, ma conservare quei territori
rappresenta una dimostrazione di forza che indebolisce le pretese
armene su altri aspetti del conflitto.
L'Azerbaijan, trasformato nel corso degli ultimi cinque anni dalla
ricchezza prodotta dai petrodollari del Caspio, guida una corsa agli
armamenti da 4 miliardi di dollari l'anno. La retorica bellica è
diventata parte integrante del volto pubblico del regime di Aliyev,
chiudendo la porta ad alternative non violente. Al momento nessuno sa
che cosa significhi la promessa del "più alto livello di autonomia nel
mondo" per il Karabakh armeno; l'unico punto di riferimento è la
Regione Autonoma di epoca sovietica, che ci porta indietro di 25 anni
alle cause del conflitto. Una strategia di soft power per la
trasformazione nonviolenta del conflitto era possibile, ma nel corso
dell'ultimo decennio l'Azerbaijan sembra aver optato per le maniere
forti.
Tensioni e minacce reciproche non sono nuove, ma il militarismo
crescente va giudicato alla luce di altri due fattori. Il primo è
l'ampiezza del dispiegamento militare sul terreno: lungo una linea di
contatto di 160 miglia si fronteggiano circa 40.000 soldati, molti dei
quali matricole. Negli ultimi anni, le frequenti scaramucce hanno
causato un crescente numero di vittime. C'è un rischio concreto di
guerra accidentale, di un'escalation involontaria che sfugga di mano.
Non ci sono linee di comunicazione lungo tutto il fronte, e la
capacità internazionale di condurre indagini sugli incidenti è minima.
Inoltre, gli armamenti di nuova acquisizione renderebbero una nuova
guerra molto più ampia e distruttiva della precedente. Con gli attuali
schemi di alleanza geopolitica, le ricadute potrebbero essere
difficili da circoscrivere. Improbabile una guerra dei cinque giorni
del genere visto in Georgia nel 2008; legittima la preoccupazione che
le leadership armene e azere si siano cacciate in un terribile gioco
di posizione con poco spazio di manovra.
La militarizzazione della società
Il secondo fattore è il lento deterioramento delle relazioni
Stato-società in entrambi i Paesi. Fare opposizione e promuovere il
pluralismo è diventato un gioco sempre più pericoloso: un gioco per
chi detiene il potere, pericoloso per chi lo mette in discussione. Il
numero di armeni che hanno deciso di esprimere il proprio dissenso
prendendo la via dell'emigrazione è un problema serio nel paese,
mentre l'Azerbaijan è stato scosso da esplosioni di protesta popolare
contro il malgoverno locale. Al di là della natura - esterna o interna
- di queste manifestazioni di scontento, è chiaro che il crescente
militarismo si sta sviluppando in un contesto di relazioni
Stato-società sempre più impoverite e disfunzionali, cosa che
ignoriamo a nostro rischio e pericolo.
Che cosa dovrebbe fare la comunità internazionale, ovvero noi? In
primo luogo, aggiornare il nostro kit di strumenti concettuali. Usare
per il Karabakh categorie intrinsecamente statiche, retrospettive e
intellettualmente pigre come `conflitto congelato', "né guerra, né
pace" o "conflitto post-sovietico" asseconda un senso di
autocompiacimento non giustificato dall'attuale situazione sul campo.
Questo conflitto ha sempre meno in comune con la Transnistria o
l'Abkhazia e sempre di più con rivalità inter-statali di lungo periodo
del genere visto tra India e Pakistan, le due Coree o Israele e alcuni
vicini arabi. Questo accostamento potrebbe sembrare pessimista, ma
un'analisi comparativa di questi contesti - e dei casi di risoluzione
di successo - sembrerebbe opportuna.
In secondo luogo, se accettiamo questo tipo di ri-contestualizzazione
del conflitto, ne consegue che dovremmo anche rivedere le nostre
strategie per risolverlo. Abbiamo vissuto per molti anni con l'idea
che un processo di pace mediato a livello internazionale porti
gradualmente verso un accordo. Tuttavia, come dimostra anche la storia
dei colloqui di pace in Karabakh, questa idea è nettamente in
contrasto con i processi reali, controllati e non controllati, in
corso in Armenia e Azerbaijan. Non è il conflitto ad essere stato
congelato, ma il processo di pace, come la superficie di un fiume
ghiacciato sotto la quale continuano a fluire correnti sconosciute.
O tutto o niente
Il nostro pensiero strategico è bloccato dal divario tra progresso
auspicato e realtà dell'impasse. Si pensa che mantenere congelato il
processo di pace sia il male minore, e che la gestione del conflitto
sia il massimo che si possa sperare. Sembra che l'unica scelta sia fra
un accordo di pace, che a questo punto sembra utopico al limite del
fantastico, o una nuova guerra. Scelte `o tutto o niente' come questa
sono estremamente attraenti per leader semi-autoritari, ma hanno
pesanti implicazioni, presenti e future, per chi è più vicino alla
prima linea. Perché l'orizzonte di possibilità deve essere definito in
termini così ristretti, e da chi? Nonostante le prevedibili obiezioni
azere contro il radicamento dello status quo e quelle armene in
materia di sicurezza, credo che aprire e diversificare questo menù sia
una priorità per il processo di pace in Karabakh.
Ci sono un certo numero di organizzazioni europee di peace-building
che lavorano con partner locali verso questo obiettivo, tra cui un
consorzio finanziato dall'Unione europea e noto come European
Partnership for the Peaceful Resolution of the Conflict over
Nagorno-Karabakh (EPNK). Sosteniamo le iniziative armeno-azere per la
ricerca e il dialogo, i contatti tra le persone, il lavoro
transfrontaliero dei media e l'attivismo con i giovani, le donne e le
comunità sfollate. Chi è esposto solo alla guerra dell'informazione
nei media internazionali rimane regolarmente sorpreso del livello di
interazione raggiunto. Ma questi sforzi rimangono, purtroppo, di basso
profilo. I budget sono una frazione di ciò che viene speso per le
campagne di comunicazione finanziate dallo Stato o i nuovi armamenti.
I nostri partner nella società civile sono impegnati su più fronti. E
molti - insider e outsider - trovano l'agenda petrolifera e del gas
più stimolante del processo di pace nella regione.
Quale via di mezzo?
Questi sono alcuni dei motivi per cui è difficile ritagliare una terza
via fra una nuova guerra e un accordo di pace eccessivamente utopico.
Eppure vi è una vasta gamma di vie di mezzo che possono essere
adottate, in primo luogo dai governi di Armenia e Azerbaijan, per
introdurre una nuova dinamica nella situazione attuale. Innanzitutto,
abbandonare la retorica militaristica perché, nelle parole di uno dei
nostri partner, "anche il miglior piano di pace fallirebbe nel clima
attuale". Più concretamente, in termini di prevenzione, altre
soluzioni potrebbero essere il ritiro dei cecchini, reintrodurre linee
di comunicazione che attraversino la linea del fronte e creare
meccanismi di indagine più robusti in caso di incidente da parte delle
organizzazioni internazionali.
Le visite transfrontaliere, abbastanza regolari prima del 2003,
dovrebbero essere reintrodotte nel repertorio di iniziative
armeno-azere. Gli sfollati dovrebbero essere autorizzati a visitare le
loro comunità d'origine in sicurezza e dignità, perché chi lo desidera
possa ristabilire i legami. Questa iniziativa dovrebbe essere
reciproca, vale a dire su entrambi i lati del conflitto, per
garantirne la legittimità. Progetti pilota potrebbero sostenere il
ritorno degli sfollati, il restauro di monumenti e la loro
conservazione comune come ponte tra le comunità, anziché essere usati
come simboli della loro distruzione. Piuttosto che spendere soldi in
nuovi libri che cercano di dimostrare che gli armeni non fanno parte
del Caucaso, l'Azerbaijan potrebbe istituire un Fondo culturale
armeno, promuovere il recupero del patrimonio in modo collaborativo e
invertire le tendenze distruttive degli ultimi anni. E piuttosto che
permettere e promuovere mappe che raffigurano il bottino di guerra
come territori organici, Armenia e NK potrebbero pianificare il
ritorno dei territori occupati sotto la giurisdizione azera.
Queste idee sono senza dubbio considerate ingenue, impraticabili e
pericolose, soprattutto da chi è al potere: rafforzano lo status quo,
compromettono la sicurezza. Ma sono di gran lunga più modeste di
quelle contenute nei principi di Madrid che sono stati discussi al
tavolo dei negoziati di più alto livello per oltre cinque anni. Quello
che tali iniziative potrebbero raggiungere è la liberazione delle
società armena e azera da una politica permanente di autoritarismo
securitario e scelte `o tutto o niente'.
Qual è l'alternativa? Se la via di mezzo `positiva' è più realistica
di un accordo di pace utopico, quella `negativa' è più reale di una
nuova guerra. Questo è ciò che abbiamo oggi in Armenia e Azerbaijan:
un conflitto che avvelena lentamente tutti i campi della vita sociale
e politica. Se ne avvantaggiano coloro che ne fanno uso come arma
nelle lotte interne, ma il rischio crescente è che a un certo punto
perderanno il controllo e si troveranno ad affrontare una tigre
sconosciuta, da loro stessi creata.
*Laurence Broers, è Project Manager per il Caucaso di Conciliation Resources
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Nagorno-Karabakh/La-sottile-linea-rossa-del-Nagorno-Karabakh-143621