IO Donna, Italia
3 aprile 2015
Armeni un secolo dopo
Il 24 aprile ricorre il centenario del genocidio del popolo armeno.
Oggi otto milioni di loro vivono sparsi in più di 85 Paesi dove, pur
integrandosi, tentano di mantenere la loro identità. Una fotografa
armeno-americana e una scrittrice armeno-italiana riflettono su questa
doppia appartenenza. Le immagini
di Antonia Arslan, foto di Scout Tufankjian - 31 marzo 2015
Un armeno-americano visita i resti della chiesa di suo nonno a Surp
Sarkis, in Diyarbakir, Turchia.
Nel febbraio dell'anno scorso mi arriva una lunga lettera, da un
mittente sconosciuto. Non tanto sconosciuto, mi accorgo subito, perché
l'autore cita con familiarità nomi che ben conosco e mi sono cari,
quelli di zia Henriette e di nonno Yerwant, coloro che mi hanno
condotto lungo le dolenti strade degli armeni sopravvissuti. È a loro
che ho dedicato La masseria delle allodole e La strada di Smirne. La
lettera racconta di cose remote, ma di cui ritrovo in me un'eco
lontana: degli zii di Aleppo e dei cugini che commerciavano in sete di
Damasco, di zia Herminé che ricamava così bene e sposò un superstite
di Aintab, e di Nevart, che visse a Los Angeles e campava facendo
tailleurs per le dive di Hollywood. È un cugino finora ignoto che
scrive, eppure sua nonna era una delle sorelle di mio nonno. Lui non
sa perché e non sa come, ma nel corso degli anni Yerwant e lei si
persero di vista e non si scrissero più. Stanco di peripezie e di
drammatiche avventure, di esodi lancinanti e di perdite, ciascuno si
rinchiuse nella confortante bolla della sua "famiglia piccola" e del
Paese che l'aveva accolto, e fra Padova, Italia, e il New Hampshire,
ogni contatto si interruppe.
Una fotografia del 1923, col nonno in posa solenne con la moglie, i
figli, zia Henriette e zio Zareh, l'altro fratello di Aleppo, è
allegata alla lettera. Ce l'ho anch'io questa fotografia, con altre
scattate lo stesso giorno. Riconosco i vestiti, le cravatte, i fichu
delle signore, il bastoncino elegante di Zareh, e mi si riempiono gli
occhi di lacrime. Suo padre sta morendo, a 101 anni. E mi vorrebbe
conoscere, scrive il cugino, prima che la sua lunga vita finisca.
Fanno una grande festa, potrò esserci anch'io? Ma ben presto so che
non sarà più possibile, è troppo tardi: dopo la mia risposta è
arrivata un'e-mail, lo zio proprio in quei giorni se n'è andato.
Essere in diaspora. Sapere che ci sono là fuori, in un altrove spesso
irraggiungibile, altri "resti della spada", quelli che non sono stati
eliminati dal Grande Male che ha travolto tutta la nostra famigliona
anatolica, quelli con cui potresti condividere i ricordi dell'antica
patria perduta, scambiare le piccole informazioni del cuore, i
frammenti dei ricordi, le lievi illuminazioni di un sorriso, di un
gesto. E poi conoscere i loro figli, i nipoti, le donne e gli uomini
che hanno condiviso le loro vite; chiacchierare in pace davanti a un
caffè e a un dolcetto orientale. Ma ormai gli ambienti e la realtà
delle nazioni che ci hanno accolto hanno plasmato la nostra mente e le
nostre abitudini, anno dopo anno. Possiamo ritrovarci, per qualche
giorno; stare un poco insieme, condividere ricordi comuni e scoprirne
altri, ma siamo segnati in modi profondissimi dalla vita che
conduciamo, siamo immersi in Paesi e costumi diversi.
Dalla veneta Padova, dove nonno Yerwant fissò la sua dimora,
all'esotica Copacabana di suo cugino Michael, cosa abbiamo ormai in
comune? Gli zii e le belle cugine di Damasco mostravano gli ampi
sorrisi e la dolce indolenza tipicamente orientale, e la loro
accoglienza mi abbracciava come una coperta dai mille profumi; caffè e
biscottini, cioccolate e caramelle dai mille colori e dai gusti
improbabili erano continuamente offerti nel grande salotto dalle tende
di pesante broccato di Aleppo. Ma il portone d'ingresso era sempre ben
chiuso, e infinite raccomandazioni ci accompagnavano a ogni uscita:
come un velo leggero, dappertutto si percepiva l'ansia impalpabile di
una minoranza in un Paese straniero. I cugini di Los Angeles abitano a
Glendale, in una casa sulle colline. Daini si affacciano indolenti sul
prato digradante, ma la vita si passa in auto, o nel ristorante
Phenicia dove le chiacchiere durano ore davanti a un fresco tan. Nelle
cucine, cibi mediterranei si mescolano a salsicciotti e cavoletti
americani, e gli enormi frigoriferi ospitano dozzine di focacce
pasquali, pronte a essere sgelate durante tutto l'anno, in memoria dei
choereg sapienti delle nonne di un tempo.
Cosa resta allora di armeno in noi? Più di quanto crediamo, come le
intriganti fotografie di Scout Tufankjian dimostrano. Un insondabile
gusto di appartenenza, forse; o forse la pena profonda e sottile di
quell'ingiusto destino di cui noi, fragili discendenti, siamo ancora i
testimoni, e che pesa sulle nostre spalle. A volte siamo riottosi,
tentiamo di fuggire, ma poi sempre preme su di noi quella musica
arcana e lontana, i flauti di ossa delle creature abbandonate a morire
nel deserto, delle donne coraggiose che si trascinarono lungo i
sentieri aridi d'Anatolia: qualcosa che ci fa sentire come avvenuta
ieri la tragedia immensa del 1915. E infine andiamo in Armenia: e ci
sentiamo improvvisamente a casa. Non perché siamo sedotti dal folclore
o dalla gentilezza ospitale della gente, ma proprio per la terra e la
luce trasparente che ci avvolge in quella culla-patria montagnosa, per
i ruscelli e le foreste, i monasteri annidati nel folto, i canti e le
danze: e ritroviamo l'orgoglio di appartenere a un popolo che non ha
voluto morire. *
ANTONIA ARSLAN, scrittrice, è nata a Padova ma è di origine armena. Ha
insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all'università
di Padova, ha tradotto il poeta Daniel Varujan. Ha pubblicato per
Rizzoli il bestseller La masseria delle allodole portato sul grande
schermo dai fratelli Taviani. È appena uscito l'ultimo romanzo, Il
rumore delle perle di legno (Rizzoli), incentrato sulla sua famiglia.
Scout Tufankjian è una fotografa americana di origine armena che da
anni porta avanti il progetto The Armenian Diaspora Project da cui
sono tratte queste immagini.
http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2015/armenia-anniversario-15-50334029643.shtml
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress
3 aprile 2015
Armeni un secolo dopo
Il 24 aprile ricorre il centenario del genocidio del popolo armeno.
Oggi otto milioni di loro vivono sparsi in più di 85 Paesi dove, pur
integrandosi, tentano di mantenere la loro identità. Una fotografa
armeno-americana e una scrittrice armeno-italiana riflettono su questa
doppia appartenenza. Le immagini
di Antonia Arslan, foto di Scout Tufankjian - 31 marzo 2015
Un armeno-americano visita i resti della chiesa di suo nonno a Surp
Sarkis, in Diyarbakir, Turchia.
Nel febbraio dell'anno scorso mi arriva una lunga lettera, da un
mittente sconosciuto. Non tanto sconosciuto, mi accorgo subito, perché
l'autore cita con familiarità nomi che ben conosco e mi sono cari,
quelli di zia Henriette e di nonno Yerwant, coloro che mi hanno
condotto lungo le dolenti strade degli armeni sopravvissuti. È a loro
che ho dedicato La masseria delle allodole e La strada di Smirne. La
lettera racconta di cose remote, ma di cui ritrovo in me un'eco
lontana: degli zii di Aleppo e dei cugini che commerciavano in sete di
Damasco, di zia Herminé che ricamava così bene e sposò un superstite
di Aintab, e di Nevart, che visse a Los Angeles e campava facendo
tailleurs per le dive di Hollywood. È un cugino finora ignoto che
scrive, eppure sua nonna era una delle sorelle di mio nonno. Lui non
sa perché e non sa come, ma nel corso degli anni Yerwant e lei si
persero di vista e non si scrissero più. Stanco di peripezie e di
drammatiche avventure, di esodi lancinanti e di perdite, ciascuno si
rinchiuse nella confortante bolla della sua "famiglia piccola" e del
Paese che l'aveva accolto, e fra Padova, Italia, e il New Hampshire,
ogni contatto si interruppe.
Una fotografia del 1923, col nonno in posa solenne con la moglie, i
figli, zia Henriette e zio Zareh, l'altro fratello di Aleppo, è
allegata alla lettera. Ce l'ho anch'io questa fotografia, con altre
scattate lo stesso giorno. Riconosco i vestiti, le cravatte, i fichu
delle signore, il bastoncino elegante di Zareh, e mi si riempiono gli
occhi di lacrime. Suo padre sta morendo, a 101 anni. E mi vorrebbe
conoscere, scrive il cugino, prima che la sua lunga vita finisca.
Fanno una grande festa, potrò esserci anch'io? Ma ben presto so che
non sarà più possibile, è troppo tardi: dopo la mia risposta è
arrivata un'e-mail, lo zio proprio in quei giorni se n'è andato.
Essere in diaspora. Sapere che ci sono là fuori, in un altrove spesso
irraggiungibile, altri "resti della spada", quelli che non sono stati
eliminati dal Grande Male che ha travolto tutta la nostra famigliona
anatolica, quelli con cui potresti condividere i ricordi dell'antica
patria perduta, scambiare le piccole informazioni del cuore, i
frammenti dei ricordi, le lievi illuminazioni di un sorriso, di un
gesto. E poi conoscere i loro figli, i nipoti, le donne e gli uomini
che hanno condiviso le loro vite; chiacchierare in pace davanti a un
caffè e a un dolcetto orientale. Ma ormai gli ambienti e la realtà
delle nazioni che ci hanno accolto hanno plasmato la nostra mente e le
nostre abitudini, anno dopo anno. Possiamo ritrovarci, per qualche
giorno; stare un poco insieme, condividere ricordi comuni e scoprirne
altri, ma siamo segnati in modi profondissimi dalla vita che
conduciamo, siamo immersi in Paesi e costumi diversi.
Dalla veneta Padova, dove nonno Yerwant fissò la sua dimora,
all'esotica Copacabana di suo cugino Michael, cosa abbiamo ormai in
comune? Gli zii e le belle cugine di Damasco mostravano gli ampi
sorrisi e la dolce indolenza tipicamente orientale, e la loro
accoglienza mi abbracciava come una coperta dai mille profumi; caffè e
biscottini, cioccolate e caramelle dai mille colori e dai gusti
improbabili erano continuamente offerti nel grande salotto dalle tende
di pesante broccato di Aleppo. Ma il portone d'ingresso era sempre ben
chiuso, e infinite raccomandazioni ci accompagnavano a ogni uscita:
come un velo leggero, dappertutto si percepiva l'ansia impalpabile di
una minoranza in un Paese straniero. I cugini di Los Angeles abitano a
Glendale, in una casa sulle colline. Daini si affacciano indolenti sul
prato digradante, ma la vita si passa in auto, o nel ristorante
Phenicia dove le chiacchiere durano ore davanti a un fresco tan. Nelle
cucine, cibi mediterranei si mescolano a salsicciotti e cavoletti
americani, e gli enormi frigoriferi ospitano dozzine di focacce
pasquali, pronte a essere sgelate durante tutto l'anno, in memoria dei
choereg sapienti delle nonne di un tempo.
Cosa resta allora di armeno in noi? Più di quanto crediamo, come le
intriganti fotografie di Scout Tufankjian dimostrano. Un insondabile
gusto di appartenenza, forse; o forse la pena profonda e sottile di
quell'ingiusto destino di cui noi, fragili discendenti, siamo ancora i
testimoni, e che pesa sulle nostre spalle. A volte siamo riottosi,
tentiamo di fuggire, ma poi sempre preme su di noi quella musica
arcana e lontana, i flauti di ossa delle creature abbandonate a morire
nel deserto, delle donne coraggiose che si trascinarono lungo i
sentieri aridi d'Anatolia: qualcosa che ci fa sentire come avvenuta
ieri la tragedia immensa del 1915. E infine andiamo in Armenia: e ci
sentiamo improvvisamente a casa. Non perché siamo sedotti dal folclore
o dalla gentilezza ospitale della gente, ma proprio per la terra e la
luce trasparente che ci avvolge in quella culla-patria montagnosa, per
i ruscelli e le foreste, i monasteri annidati nel folto, i canti e le
danze: e ritroviamo l'orgoglio di appartenere a un popolo che non ha
voluto morire. *
ANTONIA ARSLAN, scrittrice, è nata a Padova ma è di origine armena. Ha
insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all'università
di Padova, ha tradotto il poeta Daniel Varujan. Ha pubblicato per
Rizzoli il bestseller La masseria delle allodole portato sul grande
schermo dai fratelli Taviani. È appena uscito l'ultimo romanzo, Il
rumore delle perle di legno (Rizzoli), incentrato sulla sua famiglia.
Scout Tufankjian è una fotografa americana di origine armena che da
anni porta avanti il progetto The Armenian Diaspora Project da cui
sono tratte queste immagini.
http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2015/armenia-anniversario-15-50334029643.shtml
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress