il Giornale, Italia
4 mar 2015
La strage degli armeni. Un popolo cristiano prigioniero dell'islam
Al Vittoriano di Roma è possibile ammirare la cultura del "popolo
dell'Arca" che è un bastione dell'Occidente Ma viene abbandonato a se
stesso
Renato Farina -
Il genocidio degli armeni, è stata la prima immensa strage del 900. Ci
appartiene. Forse gli armeni sono un indizio del nostro destino.
Furono eliminati per odio religioso e razziale dai musulmani turchi.
Quest'anno se ne celebra il centenario, nella data simbolica del 24
aprile.
La stupefacente mostra che si inaugura domani al Vittoriano, nella
corpo stesso dell'Altare della Patria, è insieme di oro e di sangue.
Ci sono tesori antichi e la voce di italiani che denunciarono la
strage sin da pochi mesi dopo gli eccidi di Anatolia e Cilicia. Un
milione e mezzo di morti. Paolo Kessisoglu (quello di Luca e Paolo: è
figlio di sopravvissuti del genocidio scampati in Italia) leggerà le
pagine di Filippo Meda, Antonio Gramsci, del console d'Italia a
Trebisonda, Giacomo Guerrini.
Preme subito dirlo. Non è una mostra sul genocidio. Le testimonianze
al proposito occupano solo una delle sette sezioni. Domina da ogni
parte il monte biblico Ararat, dove si arenò - dicono oramai anche gli
archeologi - l'Arca di Noè. Insomma: l'Armenia non è il luogo del
Diluvio Universale, ma della rinascita dopo la tragedia. E prima
ancora che diventassero cristiani, quando nacquero come popolo,
tramandarono nel settimo secolo avanti Cristo di essere discendenti di
Noè, da Iafet, che diede il primo vino al mondo attraverso gli armeni.
E il distillato Ararat, che se ne ricava, ha un profumo uguale e
diversissimo dal cognac. Sa di miele di roccia ma di albicocca. Fu da
qui che i romani la portarono in Italia, ed in Veneto si chiama ancora
«armellino». Venezia in particolare ha mescolato la sua laguna con le
acque caucasiche e orientali di questi cristiani a cui fu donata
un'isola, san Lazzaro, dove stamparono i loro libri meravigliosi con
quell'alfabeto che a solo guardarlo induce a pensare il dolore del
mondo.
Non è una mostra sul genocidio, ma lo spiega. Si capisce perché li
odiano. Perché li vogliono distruggere. Gli armeni non si
sottomettono, non possono farlo. C'è un fuoco dentro questo popolo. Da
loro sgorga una bellezza nell'arte, nella lingua, nei libri, nelle
loro liturgie insopportabile per chi sia convinto che fuori dal Corano
non c'è salvezza.
Ma visto che è il centenario non possiamo prescindere da quell'abisso
di male. Eppure la croce armena è fiorita. Non è mai scolpita,
disegnata, colorata, senza contenere un germoglio (una parte della
mostra è dedicata a questo susseguirsi di strane croci). Come si dice
in un testo liturgico tradotto sin dal 1816 in italiano si spiega
perché: «Fin dal principio dei tempi apparve la Croce fiorita nel
Paradiso piantato da Dio: segno di consolazione a Set, e pegno di
speranza al padre Adamo». Gli armeni non riescono a non vedere, a
differenza degli ebrei di cui condividono il marchio della
persecuzione, spuntare un fiore dal male assoluto. Si racconta che
Komitas, il genio musicale armeno, sopravvissuto per miracolo al
genocidio, dopo quella tragedia sia rimasto in silenzio: per
vent'anni, fino alla morte. Bisogna romperlo quel silenzio. Parlare
dell'Armenia.
Gli armeni! Che ne sappiamo? Poco. A Venezia c'è la loro meravigliosa
biblioteca dove stanno monaci dalle grandi barbe. Nei film americani
sono figure simpatiche di numerosa famiglia. È un popolo dalla schiena
diritta. Sono stato in Armenia e ne ho studiato (poco) la storia. Il
sole è accecante, la terra arida, che si dischiude su acque di laghi
turchese. Nella capitale Erevan c'è il monumento dell'orrore, avvolto
di pietà, perché gli armeni coltivano anche il perdono. Popolo grande,
ma l'Armenia è ridotta a un fazzoletto di terra, meno di 30mila km
quadrati, inferiore alla decima parte dell'Italia, in realtà meno del
90% del territorio che storicamente le apparterrebbe, ma è di dominio
turco. Che bella gente quella armena. Chiedono che la Turchia chiami
le cose con il loro nome, omicidio l'omicidio, genocidio il genocidio.
Il Parlamento italiano, nel 2000, all'unanimità ha riconosciuto il
genocidio armeno. Ma ora, per non turbare la Turchia, il governo
italiano è molto timido sul tema. Sulla verità non lo si dovrebbe mai
essere. Per ragioni strategiche dovremmo tollerare una Turchia che non
riconosce l'orrore della propria storia? Tirarci in Europa una realtà
di menzogna?
Bisogna ricordare. Ricordiamolo a noi stessi, mettiamolo nell'agenda
del nostro governo. Nel cuore del Caucaso c'è un piccolo Stato
cristiano. Noi non lo sapevamo - non sappiamo mai niente di importante
- ma è l'ultima propaggine dell'Europa e dell'Occidente. Anche se le
cartine della geografia dicono Asia, questa è Europa. Prima che noi
diventassimo cristiani, loro lo erano già. È un cristianesimo che non
è cattolico latino ma non si è mai separato aspramente da Roma: c'è
dai tempi del Vangelo. Gli armeni hanno avuto la sfortuna di essere
abitanti di un territorio troppo strategicamente decisivo: tra il Mar
Nero e il Mar Caspio, difesi dalle montagne a Nord e Sud. Chi possiede
questa terra ha in mano il perno dell'Asia e dell'Europa. I romani
avevano già preso sotto di sé questa regione con Pompeo, nel 69 avanti
Cristo. Data dal 301 la decisione di dichiarare il cristianesimo
religione di Stato, primi al mondo. Arrivarono mongoli, turchi, arabi,
persiani e poi ancora turchi, a divorarsela, quindi i comunisti
sovietici: ma questo punto di cristianesimo e di occidente, di valore
dato all'individuo e al popolo che lo difende, ha tenuto. Si
rifugiavano sulle montagne o fuggivano all'estero, portando con sé i
loro libri e trascrivendoli. La loro cultura è infinita. Non solo nel
senso della quantità, ma in quello strabiliante della forza
dell'identità. Questi sanno chi sono. Per questo sono un patrimonio
imperdibile proprio per noi che non sappiamo più chi siamo ma
guardando loro abbiamo nostalgia. Ora questo popolo, che ha ritrovati
magri confini, è circondato dall'Islam. Ha preservato una roccaforte
di straordinaria bellezza tra i monti azeri, il Nagorno Karabakh, ma
muore praticamente di fame e di solitudine. Scrive lo storico armeno
Leonzio nel medioevo: «Ormai secche le rose e le violette armene». Ma
rifioriscono ogni volta.
- - - Al Vittoriano in Roma la mostra Armenia. Il popolo dell'Arca .
Da venerdì 6 marzo al 3 maggio aperta al pubblico
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/strage-degli-armeni-popolo-cristiano-prigioniero-dellislam-1101366.html
4 mar 2015
La strage degli armeni. Un popolo cristiano prigioniero dell'islam
Al Vittoriano di Roma è possibile ammirare la cultura del "popolo
dell'Arca" che è un bastione dell'Occidente Ma viene abbandonato a se
stesso
Renato Farina -
Il genocidio degli armeni, è stata la prima immensa strage del 900. Ci
appartiene. Forse gli armeni sono un indizio del nostro destino.
Furono eliminati per odio religioso e razziale dai musulmani turchi.
Quest'anno se ne celebra il centenario, nella data simbolica del 24
aprile.
La stupefacente mostra che si inaugura domani al Vittoriano, nella
corpo stesso dell'Altare della Patria, è insieme di oro e di sangue.
Ci sono tesori antichi e la voce di italiani che denunciarono la
strage sin da pochi mesi dopo gli eccidi di Anatolia e Cilicia. Un
milione e mezzo di morti. Paolo Kessisoglu (quello di Luca e Paolo: è
figlio di sopravvissuti del genocidio scampati in Italia) leggerà le
pagine di Filippo Meda, Antonio Gramsci, del console d'Italia a
Trebisonda, Giacomo Guerrini.
Preme subito dirlo. Non è una mostra sul genocidio. Le testimonianze
al proposito occupano solo una delle sette sezioni. Domina da ogni
parte il monte biblico Ararat, dove si arenò - dicono oramai anche gli
archeologi - l'Arca di Noè. Insomma: l'Armenia non è il luogo del
Diluvio Universale, ma della rinascita dopo la tragedia. E prima
ancora che diventassero cristiani, quando nacquero come popolo,
tramandarono nel settimo secolo avanti Cristo di essere discendenti di
Noè, da Iafet, che diede il primo vino al mondo attraverso gli armeni.
E il distillato Ararat, che se ne ricava, ha un profumo uguale e
diversissimo dal cognac. Sa di miele di roccia ma di albicocca. Fu da
qui che i romani la portarono in Italia, ed in Veneto si chiama ancora
«armellino». Venezia in particolare ha mescolato la sua laguna con le
acque caucasiche e orientali di questi cristiani a cui fu donata
un'isola, san Lazzaro, dove stamparono i loro libri meravigliosi con
quell'alfabeto che a solo guardarlo induce a pensare il dolore del
mondo.
Non è una mostra sul genocidio, ma lo spiega. Si capisce perché li
odiano. Perché li vogliono distruggere. Gli armeni non si
sottomettono, non possono farlo. C'è un fuoco dentro questo popolo. Da
loro sgorga una bellezza nell'arte, nella lingua, nei libri, nelle
loro liturgie insopportabile per chi sia convinto che fuori dal Corano
non c'è salvezza.
Ma visto che è il centenario non possiamo prescindere da quell'abisso
di male. Eppure la croce armena è fiorita. Non è mai scolpita,
disegnata, colorata, senza contenere un germoglio (una parte della
mostra è dedicata a questo susseguirsi di strane croci). Come si dice
in un testo liturgico tradotto sin dal 1816 in italiano si spiega
perché: «Fin dal principio dei tempi apparve la Croce fiorita nel
Paradiso piantato da Dio: segno di consolazione a Set, e pegno di
speranza al padre Adamo». Gli armeni non riescono a non vedere, a
differenza degli ebrei di cui condividono il marchio della
persecuzione, spuntare un fiore dal male assoluto. Si racconta che
Komitas, il genio musicale armeno, sopravvissuto per miracolo al
genocidio, dopo quella tragedia sia rimasto in silenzio: per
vent'anni, fino alla morte. Bisogna romperlo quel silenzio. Parlare
dell'Armenia.
Gli armeni! Che ne sappiamo? Poco. A Venezia c'è la loro meravigliosa
biblioteca dove stanno monaci dalle grandi barbe. Nei film americani
sono figure simpatiche di numerosa famiglia. È un popolo dalla schiena
diritta. Sono stato in Armenia e ne ho studiato (poco) la storia. Il
sole è accecante, la terra arida, che si dischiude su acque di laghi
turchese. Nella capitale Erevan c'è il monumento dell'orrore, avvolto
di pietà, perché gli armeni coltivano anche il perdono. Popolo grande,
ma l'Armenia è ridotta a un fazzoletto di terra, meno di 30mila km
quadrati, inferiore alla decima parte dell'Italia, in realtà meno del
90% del territorio che storicamente le apparterrebbe, ma è di dominio
turco. Che bella gente quella armena. Chiedono che la Turchia chiami
le cose con il loro nome, omicidio l'omicidio, genocidio il genocidio.
Il Parlamento italiano, nel 2000, all'unanimità ha riconosciuto il
genocidio armeno. Ma ora, per non turbare la Turchia, il governo
italiano è molto timido sul tema. Sulla verità non lo si dovrebbe mai
essere. Per ragioni strategiche dovremmo tollerare una Turchia che non
riconosce l'orrore della propria storia? Tirarci in Europa una realtà
di menzogna?
Bisogna ricordare. Ricordiamolo a noi stessi, mettiamolo nell'agenda
del nostro governo. Nel cuore del Caucaso c'è un piccolo Stato
cristiano. Noi non lo sapevamo - non sappiamo mai niente di importante
- ma è l'ultima propaggine dell'Europa e dell'Occidente. Anche se le
cartine della geografia dicono Asia, questa è Europa. Prima che noi
diventassimo cristiani, loro lo erano già. È un cristianesimo che non
è cattolico latino ma non si è mai separato aspramente da Roma: c'è
dai tempi del Vangelo. Gli armeni hanno avuto la sfortuna di essere
abitanti di un territorio troppo strategicamente decisivo: tra il Mar
Nero e il Mar Caspio, difesi dalle montagne a Nord e Sud. Chi possiede
questa terra ha in mano il perno dell'Asia e dell'Europa. I romani
avevano già preso sotto di sé questa regione con Pompeo, nel 69 avanti
Cristo. Data dal 301 la decisione di dichiarare il cristianesimo
religione di Stato, primi al mondo. Arrivarono mongoli, turchi, arabi,
persiani e poi ancora turchi, a divorarsela, quindi i comunisti
sovietici: ma questo punto di cristianesimo e di occidente, di valore
dato all'individuo e al popolo che lo difende, ha tenuto. Si
rifugiavano sulle montagne o fuggivano all'estero, portando con sé i
loro libri e trascrivendoli. La loro cultura è infinita. Non solo nel
senso della quantità, ma in quello strabiliante della forza
dell'identità. Questi sanno chi sono. Per questo sono un patrimonio
imperdibile proprio per noi che non sappiamo più chi siamo ma
guardando loro abbiamo nostalgia. Ora questo popolo, che ha ritrovati
magri confini, è circondato dall'Islam. Ha preservato una roccaforte
di straordinaria bellezza tra i monti azeri, il Nagorno Karabakh, ma
muore praticamente di fame e di solitudine. Scrive lo storico armeno
Leonzio nel medioevo: «Ormai secche le rose e le violette armene». Ma
rifioriscono ogni volta.
- - - Al Vittoriano in Roma la mostra Armenia. Il popolo dell'Arca .
Da venerdì 6 marzo al 3 maggio aperta al pubblico
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/strage-degli-armeni-popolo-cristiano-prigioniero-dellislam-1101366.html