La Stampa, Italia
17 dic 2011
Caucaso: voci e racconti 'dimenticati' dei conflitti locali
[Caucasus: Forgotten Voices and Stories of Local Conflicts]
TRADOTTO DA GIULIA JANNELLI
I tre conflitti esplosi nel Caucaso meridionale agli inizi degli anni
'90, messi in secondo piano dallo scoppio della guerra nell'ex
Jugoslavia, sono tra gli eventi più snobbati dai media internazionali.
Oltre un milione di persone sono state obbligate a lasciare le proprie
case quando esplose la guerra tra l'Armenia e l'Azerbaijan a causa
della contesa del Nagorno Karabakh, e quasi la metà venne costretta
all'esilio quando la Georgia perse il controllo delle due regioni
separatiste dell'Abcasia [it] e dell'Ossezia del sud all'incirca nella
stessa epoca.
In realtà, la ripresa del conflitto per l'Ossezia del sud culminò
nella guerra fra Georgia e Russia nell'agosto del 2008, che
inizialmente conquistò i titoli internazionali ma una volta firmato
l'accordo sul cessate il fuoco, le difficili condizioni dei rifugiati
e degli IDP nel Caucaso meridionale sono rimaste irrisolte. Nel
frattempo in Armenia, Azerbaijan e Georgia, e nei territori
separatisti di Abcasia, Ossezia del sud e Nagorno Karabakh i giornali
locali trattano raramente le drammatiche esperienze dei rifugiati e
delle comunità degli IDP, tranne quando possono usarli per fare
propaganda contro il `nemico'.
Al contrario, le difficoltà dei "rifugiati interni", ovvero IDP
(Internally Displaced Person) [definizione ufficiosa ONU per quanti
sono stati costretti ad abbandonare abitazioni e città, a causa di
guerre, violazioni dei diritti umani e altre situazioni di violenza,
ma non hanno valicato confini riconosciuti internazionalmente] vengono
in genere seguite dalle organizzazioni umanitarie, nel tentativo di
risvegliare l'interesse della comunità internazionale e di dare impeto
alla raccolta di fondi. Nel frattempo nessuno dei tre conflitti sembra
sul punto di essere risolto nel prossimo futuro, mentre vanno
peggiorando le condizioni di vita di quanto hanno dovuto abbandonare
le proprie case.
In ogni caso, grazie alla diffusione di social media nella zona, anche
se per lo più in termini di accesso all'informazione, finalmente anche
la voce di questi rifugiati va trovando spazio online. Un esempio è
dato da "IDP Voices", progetto sostenuto da Norwegian Refugee Council,
Internal Displacement Monitoring Center, e Panos London. Ospita le
storie di 29 IDP dell'Ossezia del sud e dell' Abcasia, raccolte come
interviste e presentate in versione testo, audio, e in PDF per chi
vuole scaricarle. Questa l'introduzione del progetto:
Quando hai avuto modo di ascoltare le parole di un rifugiato, per
capire cosa significhi un'esperienza di quel tipo? Hai mai pensato a
cosa voglia dire perdere i propri parenti stretti durante un
conflitto, rinunciare a tutti i propri averi e ritrovarsi sradicati
dal proprio luogo di origine? [...] Queste voci hanno il potere di
rompere il pregiudizio e scavalcare le agende politiche, parlano da
sé.
L'attenzione è centrata principalmente sulle esperienze umane e le
reazioni a queste situazioni, non alle vicende politiche. Leggendo il
racconto degli stessi rifugiati, possiamo imparare quel che è
importante e che cosa li preoccupa di più. [...] Ci permette di
estrapolare la realtà dietro alle generalizzazioni sugli sfollati. Le
storie stanno in piedi da sole, a parte brevi introduzioni: la loro
forza infatti risiede nell'insieme di immagini, voci, sensazioni,
impressioni, speranze e sogni. [...]
Una voce di questo tipo è quella di Teah, una ragazza georgiana di 30
anni che ha abbandonato l'Abcasia e spiega di "sognare una 'vita
normale' per tutti i georgiani e gli originari dell'Abcasia, che
devono `perdonarsi tutto l'un l'altro."
[...] Io cerco di parlare sia ai georgiani che agli abcasi. Non
possiamo odiarci l'un l'altro; ne abbiamo già fatti tanti di errori
senza doverne aggiungere uno in più! Dovremmo perdonare noi stessi e
perdonarci l'un l'altro. E un'altra cosa: ci deve essere volontà da
entrambe le parti perchè si sviluppino fiducia e amicizia. Se lo fa
solo una parte non si risolve nulla.
Credo che questi confini [tra l'Abcasia e la Georgia] debbano essere
aperti in modo che la gente possa comunicare. Prima viene il dialogo e
da lì si sviluppa la fiducia...
[...] Solo dopo aver raccontato le nostre tragedie abbiamo veramente
imparato qualcosa l'uno dell'altro e abbiamo iniziato a volerci bene.
Ci vuole tempo per poter avere fiducia l'uno nell'altro.
È stato quando abbiamo creduto di poter comprendere il dolore
dell'altro, quando questo momento è arrivato, che ci siamo potuti
sedere e parlare apertamente, senza discussioni nè accuse.
Questo tipo di racconti, in prima persona, sono comunque ancora pochi.
Ad esempio, i donatori internazionali hanno finanziato dei programmi
specifici su alcune emittenti radio locali, pur trattandosi spesso
progetti di breve durata. Tra questi, un giovane rifugiato di etnia
azera ha partecipato con due contributi per un progetto personale,
incluso nell'apposita pagina di Global Voices sui sui conflitti del
Caucaso. Il primo è stato scritto in inglese e poi tradotto da
volontari in armeno, Azerbaijani e russo.
[...] Avevo solo quattro anni quando ho lasciato l'Armenia, ma
guardando indietro non so se si sia trattato di una fortuna o meno
dato che non riesco a ricordare nulla di ciò che ho lasciato alle
spalle. Ricordo la nostra casa, il giardino e il campo giochi, gli
amici, l'albero di mele e il gallo che amavo tanto.
Da quando sono arrivata in Azerbaijan, sogno la nostra casa e di
passeggiare fra le rovine del nostro villaggio. Ma a un certo punto
tutto ha iniziato a essere avvolto dalle ombre. Anche così la mia
famiglia non ha mai perso la speranza che un giorno avremmo fatto
ritorno a casa. Siamo sicuri che due vicini che hanno vissuto fianco a
fianco per secoli torneranno a vivere uno accanto all'altro, anche se
il male non li ha mai lasciati in pace e li ha sempre incitati ad
odiarsi.
In Azerbaijan, da molti anni abbiamo lasciato da parte la nostra
cultura e abbiamo difficoltà a tornare alle nostre radici. Essere
trattati come degli stranieri rende tutto ancora più complicato. Gli
Azeri che risiedono in Armenia si ghettizzano rispetto al resto e
fanno gruppo. Gli episodi di discriminazione verso di noi si
verificavano in ogni campo. Dall'asilo dove andavo fino alla nostra
vita sociale.
Questa guerra ha fatto di me un fautore della pace, pur trattandosi di
un'area nuova per me. La mia lotta è più complicata perché da una
parte devo aiutare coloro che vivono il conflitto e allo stesso tempo
aiutare me stessa.
Ma se le voci della maggior parte dei rifugiati interni sono messe a
tacere in Armenia, Azerbaijan e Georgia, le loro storie di tanto in
tanto trovano spazio su progetti di media indipendenti su internet. Un
esempio è il recente progetto di blog diretto dall'International
Center on Conflict and Negotiation (ICCN) e dall'European Center for
Minority Issues (ECMI)-Caucasus. Inizialmente prodotto in russo, ma in
seguito è stata tradotto e pubblicato in inglese, un post di due
giornalisti, uno azerbaijani e uno georgiano, offre uno sguardo intimo
sulle speranze dei rifugiati e degli nei loro Paesi.
`Buon vicino,' mi chiamava un rifugiato del campo di Dashalti nel
Nagorno-Karabkah, `e ciò succede quando la gente non vive dall' `altra
parte' ed è divisa da un confine, ma quando vive a fianco dell'altro,
quando mette su famiglia, si fa visita e non da troppo peso
all'identità nazionale. Per molti secoli si è creduto che la terra è
di chi ci vive e ci lavora. Il resto è un'invenzione della politica.
[...]
Le esperienze ci mostrano che coloro che vedono con il loro occhi il
dolore e la preoccupazione e che sentono nel cuore la disgrazia della
loro terra natale non accetteranno mai di perderla. Ma allo stesso
tempo rifiuteranno di ripetere gli stessi orrori e non arriveranno mai
alla guerra. Tutti i rifugiati che hanno parlato con noi in Azerbaijan
vogliono fare ritorno ai loro piccoli villaggi e vivere in pace con
gli armeni.
E non sono solo i rifugiati azeri a provare questo sentimento, dato
che spesso si sentono dire le stesse cose anche dagli armeni cacciati
durante le espulsioni e le operazioni di pulizia etnica che hanno
caratterizzato il conflitto del Karabakh. In ogni caso, la diffusione
di questi racconti è ancora scarsa, data la limitata penetrazione di
Internet in quest'area. La televisione, per molti il mezzo di
informazione più importante, offre ben poco spazio a racconti del
conflitto di matrice diversa.
Infine, i video che includono le storie dei vari rifugiati interni,
come questi sulla guerra tra Armenia e Azerbaijan, sono stati raccolti
da Global Voices qui e qui. Purtroppo al momento il target dei social
media per queste tematiche rimane limitato, ma è destinato a crescere
con la maggiore diffusione della Rete nelle regioni caucasiche.
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/vociglobali/grubrica.asp?ID_blog=286&ID_articolo=454&ID_sezion e=654
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress
17 dic 2011
Caucaso: voci e racconti 'dimenticati' dei conflitti locali
[Caucasus: Forgotten Voices and Stories of Local Conflicts]
TRADOTTO DA GIULIA JANNELLI
I tre conflitti esplosi nel Caucaso meridionale agli inizi degli anni
'90, messi in secondo piano dallo scoppio della guerra nell'ex
Jugoslavia, sono tra gli eventi più snobbati dai media internazionali.
Oltre un milione di persone sono state obbligate a lasciare le proprie
case quando esplose la guerra tra l'Armenia e l'Azerbaijan a causa
della contesa del Nagorno Karabakh, e quasi la metà venne costretta
all'esilio quando la Georgia perse il controllo delle due regioni
separatiste dell'Abcasia [it] e dell'Ossezia del sud all'incirca nella
stessa epoca.
In realtà, la ripresa del conflitto per l'Ossezia del sud culminò
nella guerra fra Georgia e Russia nell'agosto del 2008, che
inizialmente conquistò i titoli internazionali ma una volta firmato
l'accordo sul cessate il fuoco, le difficili condizioni dei rifugiati
e degli IDP nel Caucaso meridionale sono rimaste irrisolte. Nel
frattempo in Armenia, Azerbaijan e Georgia, e nei territori
separatisti di Abcasia, Ossezia del sud e Nagorno Karabakh i giornali
locali trattano raramente le drammatiche esperienze dei rifugiati e
delle comunità degli IDP, tranne quando possono usarli per fare
propaganda contro il `nemico'.
Al contrario, le difficoltà dei "rifugiati interni", ovvero IDP
(Internally Displaced Person) [definizione ufficiosa ONU per quanti
sono stati costretti ad abbandonare abitazioni e città, a causa di
guerre, violazioni dei diritti umani e altre situazioni di violenza,
ma non hanno valicato confini riconosciuti internazionalmente] vengono
in genere seguite dalle organizzazioni umanitarie, nel tentativo di
risvegliare l'interesse della comunità internazionale e di dare impeto
alla raccolta di fondi. Nel frattempo nessuno dei tre conflitti sembra
sul punto di essere risolto nel prossimo futuro, mentre vanno
peggiorando le condizioni di vita di quanto hanno dovuto abbandonare
le proprie case.
In ogni caso, grazie alla diffusione di social media nella zona, anche
se per lo più in termini di accesso all'informazione, finalmente anche
la voce di questi rifugiati va trovando spazio online. Un esempio è
dato da "IDP Voices", progetto sostenuto da Norwegian Refugee Council,
Internal Displacement Monitoring Center, e Panos London. Ospita le
storie di 29 IDP dell'Ossezia del sud e dell' Abcasia, raccolte come
interviste e presentate in versione testo, audio, e in PDF per chi
vuole scaricarle. Questa l'introduzione del progetto:
Quando hai avuto modo di ascoltare le parole di un rifugiato, per
capire cosa significhi un'esperienza di quel tipo? Hai mai pensato a
cosa voglia dire perdere i propri parenti stretti durante un
conflitto, rinunciare a tutti i propri averi e ritrovarsi sradicati
dal proprio luogo di origine? [...] Queste voci hanno il potere di
rompere il pregiudizio e scavalcare le agende politiche, parlano da
sé.
L'attenzione è centrata principalmente sulle esperienze umane e le
reazioni a queste situazioni, non alle vicende politiche. Leggendo il
racconto degli stessi rifugiati, possiamo imparare quel che è
importante e che cosa li preoccupa di più. [...] Ci permette di
estrapolare la realtà dietro alle generalizzazioni sugli sfollati. Le
storie stanno in piedi da sole, a parte brevi introduzioni: la loro
forza infatti risiede nell'insieme di immagini, voci, sensazioni,
impressioni, speranze e sogni. [...]
Una voce di questo tipo è quella di Teah, una ragazza georgiana di 30
anni che ha abbandonato l'Abcasia e spiega di "sognare una 'vita
normale' per tutti i georgiani e gli originari dell'Abcasia, che
devono `perdonarsi tutto l'un l'altro."
[...] Io cerco di parlare sia ai georgiani che agli abcasi. Non
possiamo odiarci l'un l'altro; ne abbiamo già fatti tanti di errori
senza doverne aggiungere uno in più! Dovremmo perdonare noi stessi e
perdonarci l'un l'altro. E un'altra cosa: ci deve essere volontà da
entrambe le parti perchè si sviluppino fiducia e amicizia. Se lo fa
solo una parte non si risolve nulla.
Credo che questi confini [tra l'Abcasia e la Georgia] debbano essere
aperti in modo che la gente possa comunicare. Prima viene il dialogo e
da lì si sviluppa la fiducia...
[...] Solo dopo aver raccontato le nostre tragedie abbiamo veramente
imparato qualcosa l'uno dell'altro e abbiamo iniziato a volerci bene.
Ci vuole tempo per poter avere fiducia l'uno nell'altro.
È stato quando abbiamo creduto di poter comprendere il dolore
dell'altro, quando questo momento è arrivato, che ci siamo potuti
sedere e parlare apertamente, senza discussioni nè accuse.
Questo tipo di racconti, in prima persona, sono comunque ancora pochi.
Ad esempio, i donatori internazionali hanno finanziato dei programmi
specifici su alcune emittenti radio locali, pur trattandosi spesso
progetti di breve durata. Tra questi, un giovane rifugiato di etnia
azera ha partecipato con due contributi per un progetto personale,
incluso nell'apposita pagina di Global Voices sui sui conflitti del
Caucaso. Il primo è stato scritto in inglese e poi tradotto da
volontari in armeno, Azerbaijani e russo.
[...] Avevo solo quattro anni quando ho lasciato l'Armenia, ma
guardando indietro non so se si sia trattato di una fortuna o meno
dato che non riesco a ricordare nulla di ciò che ho lasciato alle
spalle. Ricordo la nostra casa, il giardino e il campo giochi, gli
amici, l'albero di mele e il gallo che amavo tanto.
Da quando sono arrivata in Azerbaijan, sogno la nostra casa e di
passeggiare fra le rovine del nostro villaggio. Ma a un certo punto
tutto ha iniziato a essere avvolto dalle ombre. Anche così la mia
famiglia non ha mai perso la speranza che un giorno avremmo fatto
ritorno a casa. Siamo sicuri che due vicini che hanno vissuto fianco a
fianco per secoli torneranno a vivere uno accanto all'altro, anche se
il male non li ha mai lasciati in pace e li ha sempre incitati ad
odiarsi.
In Azerbaijan, da molti anni abbiamo lasciato da parte la nostra
cultura e abbiamo difficoltà a tornare alle nostre radici. Essere
trattati come degli stranieri rende tutto ancora più complicato. Gli
Azeri che risiedono in Armenia si ghettizzano rispetto al resto e
fanno gruppo. Gli episodi di discriminazione verso di noi si
verificavano in ogni campo. Dall'asilo dove andavo fino alla nostra
vita sociale.
Questa guerra ha fatto di me un fautore della pace, pur trattandosi di
un'area nuova per me. La mia lotta è più complicata perché da una
parte devo aiutare coloro che vivono il conflitto e allo stesso tempo
aiutare me stessa.
Ma se le voci della maggior parte dei rifugiati interni sono messe a
tacere in Armenia, Azerbaijan e Georgia, le loro storie di tanto in
tanto trovano spazio su progetti di media indipendenti su internet. Un
esempio è il recente progetto di blog diretto dall'International
Center on Conflict and Negotiation (ICCN) e dall'European Center for
Minority Issues (ECMI)-Caucasus. Inizialmente prodotto in russo, ma in
seguito è stata tradotto e pubblicato in inglese, un post di due
giornalisti, uno azerbaijani e uno georgiano, offre uno sguardo intimo
sulle speranze dei rifugiati e degli nei loro Paesi.
`Buon vicino,' mi chiamava un rifugiato del campo di Dashalti nel
Nagorno-Karabkah, `e ciò succede quando la gente non vive dall' `altra
parte' ed è divisa da un confine, ma quando vive a fianco dell'altro,
quando mette su famiglia, si fa visita e non da troppo peso
all'identità nazionale. Per molti secoli si è creduto che la terra è
di chi ci vive e ci lavora. Il resto è un'invenzione della politica.
[...]
Le esperienze ci mostrano che coloro che vedono con il loro occhi il
dolore e la preoccupazione e che sentono nel cuore la disgrazia della
loro terra natale non accetteranno mai di perderla. Ma allo stesso
tempo rifiuteranno di ripetere gli stessi orrori e non arriveranno mai
alla guerra. Tutti i rifugiati che hanno parlato con noi in Azerbaijan
vogliono fare ritorno ai loro piccoli villaggi e vivere in pace con
gli armeni.
E non sono solo i rifugiati azeri a provare questo sentimento, dato
che spesso si sentono dire le stesse cose anche dagli armeni cacciati
durante le espulsioni e le operazioni di pulizia etnica che hanno
caratterizzato il conflitto del Karabakh. In ogni caso, la diffusione
di questi racconti è ancora scarsa, data la limitata penetrazione di
Internet in quest'area. La televisione, per molti il mezzo di
informazione più importante, offre ben poco spazio a racconti del
conflitto di matrice diversa.
Infine, i video che includono le storie dei vari rifugiati interni,
come questi sulla guerra tra Armenia e Azerbaijan, sono stati raccolti
da Global Voices qui e qui. Purtroppo al momento il target dei social
media per queste tematiche rimane limitato, ma è destinato a crescere
con la maggiore diffusione della Rete nelle regioni caucasiche.
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/vociglobali/grubrica.asp?ID_blog=286&ID_articolo=454&ID_sezion e=654
From: Emil Lazarian | Ararat NewsPress