Osservatorio Balcani e Caucaso, Italia
18 marzo 2013
La politica estera di Sargsyan
Marilisa Lorusso
18 marzo 2013
I primi cinque anni della presidenza Sargsyan hanno visto deteriorarsi
progressivamente la posizione dell'Armenia nella regione. L'irrisolta
questione del Nagorno Karabakh continua a minacciare la sicurezza del
paese, ma la politica estera del presidente rieletto sembra improntata
alla continuità
Il 25 febbraio scorso il Comitato Elettorale Centrale ha confermato i
primi risultati delle elezioni presidenziali tenutesi sette giorni
prima in Armenia: il presidente Serzh Sargsyan è stato riconfermato
alla guida del paese con il 58% delle preferenze espresse da quanti si
sono presentati alle urne (il 60% degli aventi diritto). Il 37% dei
voti è andato invece a Raffi Hovanissian, che però già il 19 febbraio
si era dichiarato il legittimo vincitore delle elezioni avviando
manifestazioni e una mobilitazione popolare pacifica che dura tuttora.
Mentre la politica interna del paese vive questa fase di scissione,
con un vincitore dichiarato legittimo e riconosciuto a livello
internazionale da Mosca a Washington passando per Bruxelles, e con una
non-`rivoluzione colorata' di cui è difficile prevedere il finale, gli
analisti si affrettano a sottolineare un punto che pare essere una
necessità assoluta: la politica estera armena non può permettersi il
lusso di cambiare.
Insicurezza nazionale
L'Armenia è collocata in un contesto regionale ostile. Paese senza
sbocco al mare, ha i confini a est e ovest chiusi, rispettivamente con
l'Azerbaijan e con la Turchia, a causa del conflitto per il controllo
del Nagorno-Karabakh. In verità solo i confini terrestri con la
Turchia sono chiusi, mentre è possibile recarsi direttamente in
Armenia dalla Turchia via aerea. Un'ipotesi che risulta impensabile
sul confine orientale.
Volendo fare un bilancio del primo mandato del presidente uscente
Serzh Sargsyan, la sicurezza armena del 2013 appare ancora più
precaria di quella del 2008, tanto che più che di sicurezza nazionale,
si può parlare di insicurezza nazionale. Imprescindibile in questo
contesto il legame con la Russia, garante di una protezione che funge
anche da potente deterrente a una risoluzione militare della questione
del Karabakh. E non a caso mentre la trattativa post elettorale
continua, con modalità sui generis, durante una conferenza ponte
Yerevan-Mosca, a inizio marzo, Alexander Iskandaryan, esperto e
direttore del Caucasus Institute ha rilevato che `la politica estera
dell'Armenia non è stabilita da singoli individui. Ogni presidente
dell'Armenia porterebbe avanti la stessa politica estera [che] è
determinata dalla posizione geopolitica, con un ruolo russo a livello
regionale che e' insostituibile per l'Armenia'.
L'Armenia ospita un'importante base militare russa, ma non solo. E'
stata teatro delle esercitazioni militari dell'Organizzazione per il
Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, erede ridotto del Trattato di
Varsavia) nel settembre 2012, e presto sarà la sede della prima
accademia militare dell'OTSC.
Nikolaj Bordjuzha, Segretario Generale dell'organizzazione, ha
chiarito che in caso di attacco militare contro l'Armenia, in quanto
membro essa riceverebbe `la necessaria assistenza'.
L'irrisolta questione del Nagorno Karabakh
Il mandato del presidente Sargsyan non era cominciato con venti di
pace. Ma si conclude peggio, con venti di guerra.
La questione del Karabakh rimane politicamente irrisolta dal 1994,
quando il cessate il fuoco ha imposto una sospensione dei
combattimenti ipotecando ancora oggi le sorti delle comunità stanziate
in quella che è divenuta un'invalicabile e sempre più estesa linea del
fronte. Come un'onda il conflitto si è esteso presso tutte le parti in
causa: in Azerbaijan, in Armenia, in Karabakh, dagli sfollati alla
società civile, che negli anni si è radicalizzata ovunque.
In Armenia, avendo vinto la guerra, il livello di disponibilità al
compromesso - unica strada per una risoluzione pacifica del
contenzioso - è limitatissima, se non assente. Per una classe politica
determinata a intavolare un serio progetto di trattativa di pace
sarebbe durissimo confrontarsi con le aspettative dell'elettorato.
Un'iniziativa siffatta sarebbe indubbiamente di competenza
presidenziale, stante l'assetto istituzionale della Repubblica armena.
Non a caso la Costituzione armena (artt. 55§7, 85-86) lega a doppio
filo tutte le questioni di politica estera alle linee guida
dell'ufficio della presidenza.
C'è un precedente, tuttavia, relativamente al costo politico di
un'apertura al compromesso: all'impopolarità che costrinse nel 1998 il
presidente Levon Ter-Petrosyan alle dimissioni contribuì anche
l'ipotesi che fosse propenso a concordare un ritiro dalla così detta
`cintura di sicurezza', le regioni che non facevano parte del Karabakh
sovietico, ma che sono occupate e che garantiscono - nel settore
occidentale della repubblica secessionista - contiguità territoriale
fra Armenia e Karabakh.
Quando nel 2008 la sua presidenza si è stabilizzata, dopo una
problematica fase iniziale, Sargsyan avrebbe potuto sfruttare a
proprio vantaggio circostanze che gli avrebbero concesso dei margini
di azione. Sargsyan è un karabakhi, ha preso parte alla guerra ed è
stato un uomo delle istituzioni in Karabakh, avendo ricoperto
incarichi chiave nel settore della Difesa. E' un politico la cui fede
alla causa non può essere messa in discussione. Forte di questo legame
- consolidato anche a livello territoriale e nella rete sociale
armeno-karabakhi - avrebbe potuto affrontare in termini pragmatici il
problema di come avvicinarsi a un'ipotesi di compromesso.
Ora questa ipotesi suona quasi del tutto impercorribile. Fino al 2010
sarebbe stata un percorso in salita, ma forse non del tutto
impossibile.
Dal 2010 si registrano quotidianamente violazioni del cessate il
fuoco. Concentrate all'inizio intorno alle zone contese, le violazioni
si sono estese, per quanto non in maniera sistematica, anche lungo la
frontiera di stato fra Armenia e Azerbaijan. Parallelamente a questo
scongelamento progressivo del conflitto, vi è stata una recrudescenza
della retorica. I negoziati proseguono sia in seno al gruppo di Minsk
dell'OSCE, sia sotto l'impulso e il patrocinio della presidenza russa,
che negli ultimi anni in diversi casi ha assunto l'iniziativa, anche
per tutelare lo svolgimento delle prossime Olimpiadi di Sochi in
un'atmosfera regionale di non conflittualità se non di guerra aperta.
I risultati, tuttavia, non ci sono e le parti ne condividono la grave
responsabilità. Sargsyan ha sempre precisato che non sarà l'Armenia a
dichiarare la guerra, cosa che ha anche una sua ratio, poiché è la
parte uscita sconfitta dalla guerra quella più interessata ad alterare
lo status quo. La parte sconfitta è ora l'Azerbaijan di Ilham Aliev,
un paese che spende in armamenti quanto e più dell'intero PIL armeno.
Sono insomma molto lontani i tempi della dichiarazione congiunta,
firmata da Sargsyan e Aliev subito dopo la guerra in Georgia, quando
erano ancora vivide le immagini dei bombardamenti, degli sfollamenti e
dell'avanzata militare russa nelle terre sud-caucasiche.
La crisi in corso
Difficile immaginare che un atteggiamento conciliante da parte armena
avrebbe impedito l'escalation propagandistica e di riarmo cui si è
assistito in Azerbaijan. Ma in assenza di anche questo più elementare
segnale, non si può che osservare preoccupati il conflitto che sta
deteriorando di crisi in crisi, la più recente delle quali - ancora in
corso - è stata causata dalla possibile apertura dell'aeroporto di
Stepanakert.
Baku ha già reso noto che intende abbattere (o accompagnare al suolo)
qualsiasi volo che farà uso dell'aeroporto della città, che
dall'inizio degli anni `90 si sottrae alla sovranità di Baku, ma il
cui spazio aereo - in assenza di riconoscimenti internazionali - è
riconosciuto come azero. E quanto la minaccia sia fondata lo si può
dedurre dalle dichiarazioni del ministero della Difesa azero, che non
ha esitato a rimbeccare il Segretario dell'OTSC, Bordjuzha, che
invitava a un atto di civiltà, in termini se non provocatori comunque
molto espliciti: `Se una tale situazione si verificasse in Russia,
quale posizione sosterrebbe in questo caso? Naturalmente, direbbe che
l'aereo dovrebbe essere abbattuto. Ci sono convenzioni internazionali
che proibiscono e respingono azioni illegali di questo tipo come voli
non autorizzati sul territorio'.
Di crisi in crisi, di violazione in violazione, il tavolo del Karabakh
si è involuto negli ultimi cinque anni passando da negoziato per una
soluzione di compromesso e pacifica a tentativo di evitare una nuova
guerra. Un bilancio di cui Sargsyan, seppur non unico artefice, è
corresponsabile.
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/La-politica-estera-di-Sargsyan-132277
18 marzo 2013
La politica estera di Sargsyan
Marilisa Lorusso
18 marzo 2013
I primi cinque anni della presidenza Sargsyan hanno visto deteriorarsi
progressivamente la posizione dell'Armenia nella regione. L'irrisolta
questione del Nagorno Karabakh continua a minacciare la sicurezza del
paese, ma la politica estera del presidente rieletto sembra improntata
alla continuità
Il 25 febbraio scorso il Comitato Elettorale Centrale ha confermato i
primi risultati delle elezioni presidenziali tenutesi sette giorni
prima in Armenia: il presidente Serzh Sargsyan è stato riconfermato
alla guida del paese con il 58% delle preferenze espresse da quanti si
sono presentati alle urne (il 60% degli aventi diritto). Il 37% dei
voti è andato invece a Raffi Hovanissian, che però già il 19 febbraio
si era dichiarato il legittimo vincitore delle elezioni avviando
manifestazioni e una mobilitazione popolare pacifica che dura tuttora.
Mentre la politica interna del paese vive questa fase di scissione,
con un vincitore dichiarato legittimo e riconosciuto a livello
internazionale da Mosca a Washington passando per Bruxelles, e con una
non-`rivoluzione colorata' di cui è difficile prevedere il finale, gli
analisti si affrettano a sottolineare un punto che pare essere una
necessità assoluta: la politica estera armena non può permettersi il
lusso di cambiare.
Insicurezza nazionale
L'Armenia è collocata in un contesto regionale ostile. Paese senza
sbocco al mare, ha i confini a est e ovest chiusi, rispettivamente con
l'Azerbaijan e con la Turchia, a causa del conflitto per il controllo
del Nagorno-Karabakh. In verità solo i confini terrestri con la
Turchia sono chiusi, mentre è possibile recarsi direttamente in
Armenia dalla Turchia via aerea. Un'ipotesi che risulta impensabile
sul confine orientale.
Volendo fare un bilancio del primo mandato del presidente uscente
Serzh Sargsyan, la sicurezza armena del 2013 appare ancora più
precaria di quella del 2008, tanto che più che di sicurezza nazionale,
si può parlare di insicurezza nazionale. Imprescindibile in questo
contesto il legame con la Russia, garante di una protezione che funge
anche da potente deterrente a una risoluzione militare della questione
del Karabakh. E non a caso mentre la trattativa post elettorale
continua, con modalità sui generis, durante una conferenza ponte
Yerevan-Mosca, a inizio marzo, Alexander Iskandaryan, esperto e
direttore del Caucasus Institute ha rilevato che `la politica estera
dell'Armenia non è stabilita da singoli individui. Ogni presidente
dell'Armenia porterebbe avanti la stessa politica estera [che] è
determinata dalla posizione geopolitica, con un ruolo russo a livello
regionale che e' insostituibile per l'Armenia'.
L'Armenia ospita un'importante base militare russa, ma non solo. E'
stata teatro delle esercitazioni militari dell'Organizzazione per il
Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, erede ridotto del Trattato di
Varsavia) nel settembre 2012, e presto sarà la sede della prima
accademia militare dell'OTSC.
Nikolaj Bordjuzha, Segretario Generale dell'organizzazione, ha
chiarito che in caso di attacco militare contro l'Armenia, in quanto
membro essa riceverebbe `la necessaria assistenza'.
L'irrisolta questione del Nagorno Karabakh
Il mandato del presidente Sargsyan non era cominciato con venti di
pace. Ma si conclude peggio, con venti di guerra.
La questione del Karabakh rimane politicamente irrisolta dal 1994,
quando il cessate il fuoco ha imposto una sospensione dei
combattimenti ipotecando ancora oggi le sorti delle comunità stanziate
in quella che è divenuta un'invalicabile e sempre più estesa linea del
fronte. Come un'onda il conflitto si è esteso presso tutte le parti in
causa: in Azerbaijan, in Armenia, in Karabakh, dagli sfollati alla
società civile, che negli anni si è radicalizzata ovunque.
In Armenia, avendo vinto la guerra, il livello di disponibilità al
compromesso - unica strada per una risoluzione pacifica del
contenzioso - è limitatissima, se non assente. Per una classe politica
determinata a intavolare un serio progetto di trattativa di pace
sarebbe durissimo confrontarsi con le aspettative dell'elettorato.
Un'iniziativa siffatta sarebbe indubbiamente di competenza
presidenziale, stante l'assetto istituzionale della Repubblica armena.
Non a caso la Costituzione armena (artt. 55§7, 85-86) lega a doppio
filo tutte le questioni di politica estera alle linee guida
dell'ufficio della presidenza.
C'è un precedente, tuttavia, relativamente al costo politico di
un'apertura al compromesso: all'impopolarità che costrinse nel 1998 il
presidente Levon Ter-Petrosyan alle dimissioni contribuì anche
l'ipotesi che fosse propenso a concordare un ritiro dalla così detta
`cintura di sicurezza', le regioni che non facevano parte del Karabakh
sovietico, ma che sono occupate e che garantiscono - nel settore
occidentale della repubblica secessionista - contiguità territoriale
fra Armenia e Karabakh.
Quando nel 2008 la sua presidenza si è stabilizzata, dopo una
problematica fase iniziale, Sargsyan avrebbe potuto sfruttare a
proprio vantaggio circostanze che gli avrebbero concesso dei margini
di azione. Sargsyan è un karabakhi, ha preso parte alla guerra ed è
stato un uomo delle istituzioni in Karabakh, avendo ricoperto
incarichi chiave nel settore della Difesa. E' un politico la cui fede
alla causa non può essere messa in discussione. Forte di questo legame
- consolidato anche a livello territoriale e nella rete sociale
armeno-karabakhi - avrebbe potuto affrontare in termini pragmatici il
problema di come avvicinarsi a un'ipotesi di compromesso.
Ora questa ipotesi suona quasi del tutto impercorribile. Fino al 2010
sarebbe stata un percorso in salita, ma forse non del tutto
impossibile.
Dal 2010 si registrano quotidianamente violazioni del cessate il
fuoco. Concentrate all'inizio intorno alle zone contese, le violazioni
si sono estese, per quanto non in maniera sistematica, anche lungo la
frontiera di stato fra Armenia e Azerbaijan. Parallelamente a questo
scongelamento progressivo del conflitto, vi è stata una recrudescenza
della retorica. I negoziati proseguono sia in seno al gruppo di Minsk
dell'OSCE, sia sotto l'impulso e il patrocinio della presidenza russa,
che negli ultimi anni in diversi casi ha assunto l'iniziativa, anche
per tutelare lo svolgimento delle prossime Olimpiadi di Sochi in
un'atmosfera regionale di non conflittualità se non di guerra aperta.
I risultati, tuttavia, non ci sono e le parti ne condividono la grave
responsabilità. Sargsyan ha sempre precisato che non sarà l'Armenia a
dichiarare la guerra, cosa che ha anche una sua ratio, poiché è la
parte uscita sconfitta dalla guerra quella più interessata ad alterare
lo status quo. La parte sconfitta è ora l'Azerbaijan di Ilham Aliev,
un paese che spende in armamenti quanto e più dell'intero PIL armeno.
Sono insomma molto lontani i tempi della dichiarazione congiunta,
firmata da Sargsyan e Aliev subito dopo la guerra in Georgia, quando
erano ancora vivide le immagini dei bombardamenti, degli sfollamenti e
dell'avanzata militare russa nelle terre sud-caucasiche.
La crisi in corso
Difficile immaginare che un atteggiamento conciliante da parte armena
avrebbe impedito l'escalation propagandistica e di riarmo cui si è
assistito in Azerbaijan. Ma in assenza di anche questo più elementare
segnale, non si può che osservare preoccupati il conflitto che sta
deteriorando di crisi in crisi, la più recente delle quali - ancora in
corso - è stata causata dalla possibile apertura dell'aeroporto di
Stepanakert.
Baku ha già reso noto che intende abbattere (o accompagnare al suolo)
qualsiasi volo che farà uso dell'aeroporto della città, che
dall'inizio degli anni `90 si sottrae alla sovranità di Baku, ma il
cui spazio aereo - in assenza di riconoscimenti internazionali - è
riconosciuto come azero. E quanto la minaccia sia fondata lo si può
dedurre dalle dichiarazioni del ministero della Difesa azero, che non
ha esitato a rimbeccare il Segretario dell'OTSC, Bordjuzha, che
invitava a un atto di civiltà, in termini se non provocatori comunque
molto espliciti: `Se una tale situazione si verificasse in Russia,
quale posizione sosterrebbe in questo caso? Naturalmente, direbbe che
l'aereo dovrebbe essere abbattuto. Ci sono convenzioni internazionali
che proibiscono e respingono azioni illegali di questo tipo come voli
non autorizzati sul territorio'.
Di crisi in crisi, di violazione in violazione, il tavolo del Karabakh
si è involuto negli ultimi cinque anni passando da negoziato per una
soluzione di compromesso e pacifica a tentativo di evitare una nuova
guerra. Un bilancio di cui Sargsyan, seppur non unico artefice, è
corresponsabile.
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Armenia/La-politica-estera-di-Sargsyan-132277